La musica nelle cuffie infastidivano la vecchietta seduta nel sedile del treno che con velocità costante raggiungeva pigro la capitale d'Italia: Roma.La ragazza ascoltava, rapita dai propri pensieri, e la signora di fianco per lei era insignificante. Guardando fuori dal finestrino aveva le orecchie assordate dalla musica tecno che con ritmo pulsava.
La musica dava quella sensazione magica che solo essa sa donare. Quelle forti vibrazioni nella testa e nel cuore la facevano sentire in vita, quelle pulsazioni nel corpo sostituivano quelle del suo cuore, già da tempo morto.
Nel cuore solo vento, nelle vene solo polvere, nell'anima solo silenzio.
Quelle parole, che uscirono all'improvviso nella mente della ragazza, vennero velocemente trascritte nel cellulare. Ciò che la sua mente formulava a parole, lei trascriveva con particolare cura a penna, nel fidato blocchetto di fogli che sempre seguiva la sua padrona nei suoi viaggi.
Una lurida poetessa le aveva urlato il padre, dopo che gli aveva rivelato l'idea di andare a Roma, per sbancare così, con quel mestiere fatto di incertezza e passione. Da lì in poi non parlò più con lui. Già da tempo i loro dialoghi si limitavano a poche frasi, diventando sempre più spesso monosillabi.
Una relazione familiare deserta, senza anima né vita.
Ecco la descrizione che Elisa dava se le veniva chiesto del padre. Era stato incredibilmente facile chiudere tutti i ponti con lui, se quelli si potevano chiamare "ponti". La madre aveva condiviso invece il suo desiderio di diventare una poetessa, dato il suo amore per la figlia. Lei era stata l'unica della famiglia a condividere quella sua passione, leggendo le sue poesie e aiutandola nel correggere i suoi errori. Il distacco da lei era stato molto più difficile. Per lei aveva versato lacrime, alla stazione. Suo padre non era neanche venuto a salutarla. Il fratellino minore, d'altro canto, stava seguendo pericolosamente le orme del padre, anche lui convinto che la sorella sarebbe tornata strisciando, chiedendo perdono, vitto e alloggio gratis.
La madre l'aveva convinta però ad iscriversi ad un corso d'università che nemmeno lontanamente interessava alla ragazza: lettere.
"Prova" gli aveva detto. E così fu. Nella valigia sopra la sua testa infatti aveva, oltre che hai vestiti e lo stretto necessario per sopravvivere, i libri di lettere, che d'altronde pesavano più dei pesi che sollevava in palestra di solito.
Un secondo di silenzio sollevò le orecchie della vecchietta, per poi riprende il suono pulsante di prima. Sì, perché quando Elisa ascoltava una canzone, lo faceva a ripetizione mille e mille volte. E ogni volta le regalava le stesse medesime sensazioni. Non importa se sapeva i ritmi e le parole a memoria ormai.
L'essenziale è ascoltare. È vivere.
Di nuovo prese il cellulare e scrisse.
Riempiva sempre il cellulare di bozze di poesie, talmente tante da superare i messaggi ricevuti. Lasciare quel paesino maledetto era stato un sollievo. Dopo che si dichiarò ai propri genitori insieme alla sua prima ragazza era stata braccata, pregiudicata, pestata, insultata. Patì le pene dell'Inferno ed era unicamente sorretta dalla madre e dalla sua fidanzata. Perché anche in quell'occasione il padre mostrò con forza la sua opposizione. Talmente tanto forte da minacciare di ucciderla.
«Esci subito da questa casa, mostro. Tu non sei mia figlia, e non lo sarai mai più. E non osare tornare. Questa porta è chiusa per le persone disgustose come te. Varca di nuovo quella porta e io non ci penserò due volte a ucciderti.».
E lì il suo cuore venne ferito per la prima ed ultima volta dall'unico uomo della sua vita di cui si era fidata, che aveva amato più di se stessa. Quella notte pianse tutte le lacrime che poteva piangere. Il giorno dopo, svegliandosi accanto alla ragazza che allora amava, con gli occhi ancora rossi dal pianto, nacque a nuova vita. Lasciò dietro di sé tutto il mondo rozzo e chiuso, vivendo, finalmente, la sua vita.
Il treno iniziò a rallentare, prossimo alla fermata nella centrale. La vecchia aveva già iniziato a scendere i suoi bagagli, con la tipica fretta che gli anziani hanno quando sono in un luogo straniero. Elisa invece se la prendeva comoda, spegnendo con calma l'Ipod. Si alzò, facendo tintinnare le catene che portava alla cinta. Si passò una mano nei capelli talmente corti da non capire se fossero ricci o lisci. Inforcò i suoi fidati Ray-Ban, mentre con calma alzava le braccia ripiene di braccialetti dove il colore predominante era il nero, a parte il classico braccialetto con gli Smarties e l'improbabile "portafortuna" dei marocchini.
Buttando con improbabile delicatezza il proprio borsone sul sedile, decide di aiutare l'anziana signora a scendere le sue innumerevoli sporte, strappandole un acerbo "grazie".
«Di niente.» rispose educatamente, mostrando uno dei suoi soliti sorrisi.
Scesi gli ultimi scalini del vecchio treno, Elisa poteva dichiararsi arrivata. La stazione, immensa ai suoi occhi, era ripiena di persone affrettate a raggiungere i binari, di uomini in giacca e cravatta a raggiungere il loro posto di lavoro, di anziane in movimento con sporte della spesa, di bambini letteralmente trascinati dalle madri frettolose.
«Wow.» eh sì, era veramente l'unica parola che poteva descrivere le sue sensazioni in quel momento, e l'aria che respirava era magica, era vecchia, soffocante, pesante.
"Sono finalmente arrivata. Roma, sono qui!" e con l'adrenalina che le scorreva nel corpo di solito spento si mise meglio il borsone sulle spalle, compiendo il suo primo passo verso il futuro.
Solo verso il tardi poté coricarsi. Le doleva incredibilmente la schiena e i piedi, tutto il giorno di corsa e di fretta, alla ricerca dell'appartamento in affitto che non riusciva a trovare.
Dopo aver fatto tutte le maledizioni che poteva conoscere in italiano, riuscì a scovare quella maledetta via, riuscendo a raggiungere la nuova abitazione.
Ovviamente arredata in modo semplice, era già tanto se avesse un tavolo e due sedie al centro del salotto, collegato direttamente con la cucina attraverso una parete a scomparsa. Due vani per i piatti e le pentole, il cucinino e un lavandino.
«Mi domando se non abbiano sangue spartano nelle vene.» si chiese, sorridendo tra sé.
Una porta lievemente nascosta, a destra dell'appartamento, portava alla camera da letto, arredata con un robusto cassettone, una struttura in ferro ed un materasso, ovviamente matrimoniale.
"Su questo non si deve discutere. Non sono mica 'na zitella io, né!?".
Elisa era solita fare discorsi tra sé e sé nella sua testa e, come ad accentuare quell'alone di singolarità che l'avvolgeva, alcune volte gli dava loro anche voce, creando situazioni imbarazzanti che ormai aveva imparato a gestire.
Aveva la tentazione di vedere il bagno, ma ormai l'orologio segnava le undici, e lei era in piedi sin dalle quattro e mezza, perché quando è nervosa non è capace di dormire, no. Si lanciò con dubita grazia sul letto che era straordinariamente morbido, per non parlare del profumo di pulito che emanava.
Ma prima ancora di dormire, doveva fumare. Si era risparmiata l'ultima sigaretta di Camel apposta. Doveva battezzare il suo nuovo appartamento con la sua prima sigaretta, e l'avrebbe fumata in camera, cazzo!
"Non ho la minima voglia di alzarmi da questo letto stra maledettamente comodo... Pulirò con calma domani il pavimento...".
Si accese la sigaretta, e godé del primo tiro, straordinariamente amaro e dolce insieme, come solo la nicotina sapeva essere. L'odore impregnò l'aria, ma non se ne preoccupava. Lasciò cadere le ceneri per terra, e intanto l'unica cosa che riuscì a togliersi furono le scarpe di tela nere, lasciando respirare i piedi che, poteva scommetterci tutto, puzzavano come il gorgonzola stagionato a 36 mesi.
Lanciando il mozzicone fuori dalla finestra che dava proprio di fianco al letto, si addormentò all'istante, senza neanche avere il tempo di mettersi il pigiama o che almeno di mettersi sotto le coperte.
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La vita sulla pelle
RomanceElisa e Artemiya, la loro storia, l'amore e la vita, perché il tempo di gioire è sempre sfuggente.