Orgoglio e pregiudizio

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Artemiya ricordava di aver assistito a non pochi eventi spiacevoli. Però, ora, l'evento che più l'assillava, che la tormentava più aggressivamente, era quello dei due ragazzi.

Ricordava bene il caldo, piuttosto soffocante quella sera. Stava tornando a casa da una festa, era a piedi, sola. Stava camminando sul marcia piede...e...

Sa già che il Gay Village, quest'anno, si tiene da quelle parti: musica ballabile pulsa oltre quei cancelli aperti, molti giovani sono là assiepati. Lei cammina piuttosto lentamente, non vuole avere fretta. Ad un tratto, ombre nella notte, tre uomini scattano. Lei acuisce i sensi, vigile, ma le tre figure nerborute non la degnano di uno sguardo: vanno dritti ai due ragazzi appena usciti dalla ressa, che si tengono per mano...

Il sangue, le urla. L'ambulanza. Artemiya li vedeva ancora, tutti là: e quel giovane che stringeva a sé il corpo insanguinato del compagno ferito.

Lei non aveva pregiudizi. Francamente, cosa poteva importare alla gente con chi andava a letto l'uno o l'altra?

Però...lei non poteva vedersi così.

Era sempre stata con degli uomini, no?

Non poteva, ora, dopo tutti quest...

«Artemiya? Sei ancora tra noi?».

Marco le agitò una mano davanti agli occhi, destandola dai suoi pensieri.

«Oh» fece lei sbattendo le palpebre. «Sì, scusatemi...».

«È tutto a posto?» chiese Agnese.

«Sì, sì...ma sono stanca» rispose Artemiya portandosi una mano alle tempie. «Ci vediamo domani, ok?».

Si alzò senza far rumore e si caricò in spalla la borsa.

«Ok, buonanotte.» disse Marco sorridendo.

Salutò entrambi con la mano prima di uscire dalla silenziosa biblioteca, lasciando la sua calda atmosfera profumata di carta stampata.

La serata era piuttosto fredda: Artemiya si strinse nella grande sciarpa d'angora color blu carta da zucchero e proseguì.

La biblioteca non era lontana dal suo appartamento: svoltò l'angolo di un antico palazzo e si trovò in Campo de' Fiori, la piazza in cui tre anni prima aveva comprato casa.

L'atmosfera del luogo le era sempre piaciuta: l'aria satura di storia, con il monumento a Giordano Bruno e le facciate scrostate dei palazzi, la ressa che ogni mattina di mercato andava a crearsi, il vociare dei passanti assiepati davanti ai bar per discutere di politica. Per questo aveva scelto di vivere là, dove la vita scorreva come acqua nel letto di un fiume, portando con sé i suoni e gli odori della vita romana.

Salì nel suo palazzo, di molto scostato dalla vasca quadri lombata della fontana. Stranamente, quella notte non si vedevano pattuglie di polizia.

Dopo pochi minuti si chiuse la porta alle spalle: stava al terzo piano, poteva vedere tutto da lassù.

Canticchiando, frugò negli stipi per trovare qualcosa da mangiare e non trovò altro all'infuori di un una busta di cereali e un cartoccio di salsa. Pazienza.

Si sedette sul divano con la ciotola di latte e cereali e prese a fare zapping, fermandosi poi ad un vecchio film in bianco e nero.

Mangiò lentamente e soprappensiero. Ora che la vista della piazza le era esclusa, la mente spesso ed inevitabilmente tornava al viso tumefatto del giovane aggredito... per finire nelle pupille scure di quella ragazza.

Toc. Toc.

Artemiya aggrottò la fronte: toc.

Abbassò il volume della televisione per individuare la fonte di quel picchiettio: la finestra.

Si alzò di scatto, guardando oltre le finestre. C'era qualcuno che lanciava sassolini.

«Iacky... amore... rispondi! Amore, rispondi...».

Ma era solo Fabrizio. Artemiya aprì i vetri.

«Artemiya! Te-tesoro...» urlò singhiozzando Fabrizio.

«Fabrizio, vai a dormire.» disse Artemiya, la voce abbastanza alta da farsi sentire da lui ma non tanto da svegliare i vicini.

«No! N-no...Artemiya... io voglio stare con te!».

«Abbassa la voce.» Artemiya osservò il vuoto attorno. Ma proprio quella notte la polizia doveva assentarsi dal pattugliare la piazza? «Avanti, vattene...».

«No!» Fabrizio prese a gridare con rabbia. «Fammi salire!».

Artemiya deglutì a vuoto.

«Lo so che mi vuoi!» urlava l'uomo, giù, davanti alla vetrina dell'erboristeria. «Troia, fammi salire!».

«Ehi, se ne vada.».

Un ragazzo si era affacciato da una finestra, poco lontano.

«Zitto tu, stronzo!» singhiozzò Fabrizio barcollando. «Artemiya...».

La sua voce era vibrante di note alcoliche e sinistre, come se dovesse precipitare da un momento all'altro nei recessi della sua gola.

«Vattene, Fabrizio» gli urlò lei. «Va via, o chiamo la polizia!».

Lui abbassò di colpo la testa, parve biascicare qualcosa; poi riprese a sbraitare.

Artemiya afferrò il cellulare e con movimenti sicuri compose il numero.

Comunicò l'indirizzo, spiando dalla finestra: Fabrizio aveva iniziato a battere i pugni sul portone.

«Brutto bastardo» sibilò Artemiya. Si affacciò di nuovo: «Fabrizio, piantala!».

«Fammi... entrare...» inveì col fiato grosso lui. «Eppure godevi, troietta...».

E continuava a tempestare di pugni e testate il portone.

Artemiya, dalla finestra, vide alcuni carabinieri avvicinarsi, venuti dalla vicina centrale.

«Fabrizio Secondi?» sentì dire da uno di loro. «Stia calmo.».

Si avvicinò ad ammanettarlo e Fabrizio non oppose resistenza alcuna. Fu trascinato via.

Quando, però, fu lontano, urlò un'ultima volta:

«Puttana!».

«Mudak.» sibilò in russo lei.

Artemiya, quella sera, chiuse tutto saldamente. Nel suo letto, stretta ad un piccolo cuscino tondo, sognò che un aggressore del giovane gay era Fabrizio.


Mudak: Stronzo.

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