Un altro successo musicale, un'altra accozzaglia di rumore su un'acuta vocetta femminile in bilico sul sintetizzatore. Artemiya tamburellò distrattamente con le dita sul volante dell'auto. Quelle dita da pianista, sintesi e trama di gioie e dolori. E quel Clovis con in mano il suo album, quello che aveva sognato per mesi prima della maledetta serata. Prima...
Si voltò distrattamente, il semaforo era ancora rosso. Era a pochi passi da casa, imbottigliata nel traffico romano, di ritorno dall'università. Ma non ci aveva mai fatto caso.
C'era un piccolo chiosco, sulla destra della strada. Anzi, sembrava più un botteghino della metropolitana, pareti di legno e merletti rosicchiati dal tempo sopra la porta. Fuori non c'era nulla se non degli scaffali dall'apparenza poco stabile sommersi da buste di bulbi, ma dalla porta a vetri si poteva scorgere la foresta verde all'interno, lievemente illuminata da una fioca luce elettrica.
Sulla porta, un grande cartello. Anche quello era ligneo, disegnato nelle medesime linee della costruzione, e su esso campeggiava una scritta, pinta a mano con vernice nera: cercasi apprendista.
Artemiya sobbalzò, trascinata giù dai propri pensieri dal movimento della coda dinanzi a lei. Mosse l'auto di pochi metri, poi la posteggiò in un angolo, a quattro luci, e scese.
L'aria era fredda, le pungeva la carne oltre la felpa rossa che indossava. Prese dall'auto lo scialle, se lo gettò sulle spalle, e s'avvicinò al negozietto. Sulla porta, un poco nascosta dall'ombra della tettoia, stava la scritta " La Bottega di Flora".
Dentro, era come stare immersi nell' Aguaruna*.
Faceva caldo, come in un vivaio. Artemiya si tolse di dosso lo scialle, ma non poté non farlo senza sollevare i fruscii infastiditi delle piante intorno. Lo spazio vivibile era poco, appena un corridoio tra due sponde ricche di vita vegetale, da cui s'alzavano le teste verdastre delle piante da appartamento.
- È permesso? – le venne spontaneo chiedere, ma appena parlò si tappoò la bocca. Che idiota, non era mica entrata in una casa. – C'è nessuno? – finì poi a domandare, totalmente annegata nell'atmosfera singolare del luogo.
Era un'atmosfera familiare, quasi intima. Come l'ultima traccia di famiglia nel mondo, scarto di vita di qualcuno che alle piante, davvero, abbia dato tutto.
Nessuno rispose, perciò fece alcuni passi avanti, alzando le mani a riparare il viso dalle lunghe dita affilate della yucca.
Nei luoghi più intestini del negozio c'era più spazio. Le piante erano disposte lungo le pareti concentriche della sala, luogo che da fuori la donna non aveva reputato così grande. Al centro, vi era un banco da lavoro, carico di spugne per composizioni e boccette di sinistre lozioni per vegetali.
Da enormi vasi in plastica ben lucidata spuntavano i lunghi colli curiosi di rose rosse, bianche, arancioni, gialle, e i visi simpatici delle gerbere multicolori e i morbidi musi dei crisantemi, alcuni dei quali erano anche sdraiati in una cassa a terra, le foglie alzate al cielo. Qua e là facevano capolino vasetti di ciclamini, disposti in ordine del tutto casuale tra le fronde rigogliose dei fiori dai fusti più lunghi, coi loro steli robusti ed i capi rosa e rossi, assieme con varie specie di piante grasse, pericolosamente nascoste nella jungla artificiale.
Al banco, stava una donna.
- Ehm, signora...? – disse Artemiya accostandosi al tavolo da lavoro.
Non era anziana, ma forse nemmeno giovane. Il suo viso, parzialmente celato, pareva quasi senza età, come quello di una giovane con qualche ruga di troppo. I suoi capelli castani, legati sulla nuca con un elastico, erano macchiati d'argento, gli occhi blu parati dalle lenti di un paio d'occhiali cui mancava una stecca. Leggeva un grande libro illustrato, e Mia poté scorgere la struttura del corpo umano sulla pagina. Le lettere erano minuscole, non riusciva a decifrarle.
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La vita sulla pelle
RomanceElisa e Artemiya, la loro storia, l'amore e la vita, perché il tempo di gioire è sempre sfuggente.