Quello che si vede dal Mare

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"Sì, perché l'anima è bianca e per mostrarsi

deve diventare nera come l'inchiostro"

A.   D'Avenia,

"Bianca come il latte

rossa come il sangue"

Sono rimasta un'estranea in questa casa.

Queste stanze, prima, erano calde. Riscaldate dalla presenza di lei, dalla sua voce che raccontava eventi passati, dalle sue braccia, e dal suo sorriso.

Era un sorriso così dolce quello che mi rasserenava.

Ed ora mi trovo a camminare nel vuoto di una dimora abbandonata – perché è senza il suo ricordo che questa casa muore, e si accascia a terra, ferita a morte non dal tempo, ma dal dolore.

Elisa è spaventata. La vedo, piccola come mai l'ho vista, mentre si guarda attorno nel centro dell'ingresso. Cercano di individuare la fonte di quegli echi sconosciuti che si chiamano ricordi, i suoi occhi.

Vorrei raggiungerla. Vorrei squarciare la porta che la tiene rinchiusa in quel mondo incolore e stringerla, stringerla, e giurarle che mai il dolore sopraggiungerà di nuovo. Vorrei prenderla per mano, e condurla sul sentiero che stavamo percorrendo assieme. Ma ho paura.

Ho paura della sua paura. Paura delle mani che mi hanno fermata dal carezzarla, al suo risveglio. Paura di darle un amore che alla donna di prima piaceva, ma che ora probabilmente la schiferebbe solamente.

Eppure è ancora lei sotto quella coltre.

Ed io non so più che fare. Corro e urlo nelle grandi sale del mio Io. E vorrei cadere a terra e lasciarmi guidare, ma non posso.

Ho in mano il suo ricordo.

Ho in mano il nostro amore.

E queste dita che timide mi cercano, sono le sue.

Artemiya reagì con un moto di sorpresa celato quando Elisa le prese la mano. Lo aveva fatto d'istinto, senza nemmeno pensarci. Aveva allungato un braccio e le aveva preso, con delicatezza, due dita. Ed ora stringeva nel pugno la sua pelle bianca, l'unico appiglio che ancora – sentiva – la teneva appesa alla sua vita.

Mia la portò in giro per le stanze. Le mostrò ciò che pochi giorni prima ella stessa le aveva mostrato. Le parlò con il tono di voce che le ultime ore le avevano insegnato ad usare, un tono sommesso, il tono di chi vorrebbe destare qualcuno dal sonno ma ha il terrore di interrompere un sogno.

- Qui ci sei cresciuta, Elisa...- sussurrava Artemiya al suo fianco, e lei si guardava intorno, cercando, scavando. Scivolando da un piano all'altro della sua memoria, un vano bianco senza mobilio.

- Non ricordo niente...- pigolò. Artemiya fece un gesto trattenuto, impedendosi di abbracciarla. Ma gli occhi mori della donna non lo notarono, persi dietro ai passettini felpati richiamati alla superficie.

I primi passi di Enrico.

Sono i passettini incerti di un leprotto, soffocati dal morbido tappeto d'erba del prato.

- Ricordo un bambino...- mormorò Elisa.

Mia abbassò gli occhi. Un sorriso tradì la sua felicità nell'apprenderlo, ma un nuovo vacillamento diede voce alla delusione. Un bambino. Non ancora lei.

- Tuo fratello Enrico – disse. – l'ultima volta che lo abbiamo incontrato era in Puglia. C'era anche tua madre. Ricordi niente di lei?

- Forse – rispose, - ricordo una donna. Che cantava. Era...bella...

Elisa alzò gli occhi. Mia la fissava.

- Ma ricordo anche un'altra donna...- disse. Artemiya si fece attenta.

- ...ma no. È impossibile.

- Raccontami – disse fermamente Mia. – Raccontami ciò che ricordi di quest'altra donna.

Elisa scosse la testa. Si mosse, posò una mano sul muro. E rimembrò l'immagine che era tornata, forse distorta, forse sbagliata.

- Era una donna...bionda – disse, - oppure castana...aveva i capelli chiari. E lunghi. Ed era...era vestita di bianco.

Elisa era rimasta seria parlando di quel ricordo. Forse un po' grave, concentrata nel riportare l'immagine alla mente.

Artemiya la prese per mano.

- Vieni con me – disse piano. I suoi occhi verdi lucevano nella penombra. Lacrime. Lacrime di gioia.

Il mazzo di rose rosse e bianche che le aveva regalato era accanto al comodino. Un grande vaso di cristallo aveva abbeverato i maestosi fiori per molti giorni, ma ora essi giacevano secchi sopra il bordo del vaso. Mia non aveva avuto il cuore di spostarli.

Trattenendo la mano di Elisa nella propria, la russa marciò sino all'armadio. Lo aprì con foga, mentre il respiro si faceva più corto, impaziente di conoscere il risultato di quelle azioni. Trasse a sé una custodia di tessuto bianco, e la posò sul letto con delicatezza. Lasciò la mano di Elisa per tirarne giù la zip, e le mostrò l'abito da sposa che vi era giaciuto. Un abito che subito le strappò una lacrima fina.

- Era questo? – domandò sorridendo, - era questo l'abito che indossava?

Elisa allungò una mano. Con la punta delle dita carezzò le perle che scintillavano sul corpetto, e assaporò la dolce consistenza della seta.

- Ma...- mormorò. - ...tu...

- Io – disse Artemiya. – Ero io quella donna. E quest'abito me lo hai regalato tu. Per le nostre nozze.

L'abito si posò leggero sulla custodia aperta. Artemiya si mosse piano verso Elisa.

- E devo chiederti scusa – disse, - perché non ho saputo attendere. Perché tu sei la cosa più importante del mondo.

Gli occhi scuri di lei la guardavano dall'alto al basso, sgranati, stupiti...ma anche ritrovati, stranamente, nel fondo del pozzo. Artemiya riconobbe nelle sue pupille la donna che era stata, che doveva tornare ad essere.

E fu per lei che si appoggiò al suo corpo. Fu per lei che le sue mani si posarono sulle sue spalle, per lei che le sue labbra la presero, in un bacio triste, memore di tempi passati.

Prima di lasciarsi il tempo di pensare.

Prima di lasciarle il tempo di reagire.

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