Che Rumore Fa Una Lacrima Che Cade?

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Quel giorno faceva freddo, per essere solo settembre. Eppure Elisa amava il freddo. Il sentire le mani congelate, gli arti duri, la testa lasciata in balia dei venti. Tutto. Amava anche la pioggia, quelle piccole lacrime di puri diamanti che scendono, malinconici, per colorare e bagnare la città di quel grigio piombo che più le si addiceva. In poche parole, amava che il tempo fosse coordinato con il suo umore mattiniero. Freddo, duro, nero.

Elisa, con addosso un giubbotto nero vecchio stile lungo fino al ginocchio, aveva quell'aura dark intorno che amava. I jeans sbrindellati, con i suoi fidati anfibi, riparavano le sue gambe dal freddo.

C'erano poche persone in giro, quella mattina, perché il tempo urlava tempesta. Ma lei, sprovvista ancora di un mezzo di trasporto degno d'esser chiamato tale, era obbligata ad usare i mezzi di trasporto oppure andare a piedi fino alla meta.

Quella mattina non era stata una bella giornata, in tutti i sensi.

«Signorina?» la voce del professore di turno fece sobbalzare Elisa sul posto.

«Potrebbe dirmi cosa ha in mano in questo momento, a parte la penna?» il tono austero risuonò nell'aula, mentre gli alunni curiosi sbirciavano dal loro posto per vedere.

«Niente.» rispose, con la voce leggermente strozzata. Non era la prima volta che la beccavano a copiare, se l'era cavata molte volte. Ma non doveva succedere proprio oggi.

«Ah sì? Allora spero non le dispiaccia mostrarmi entrambe le mani.».

Cazzo. Fregata.

«Signorina, il suo esame è annullato, e lei è espulsa da questo corso.» La sua odiosa voce atona fece quasi impazzire Elisa, mentre si avviava alla cattedra con il foglio del compito e il bigliettino con tutti i suggerimenti.

«Fanculo.» mormorò a denti stretti, mentre prendeva con rabbia le sue cose e usciva dall'aula, sbattendo violentemente la porta.

"Ma sì, chi se ne frega. Dopotutto volevo abbandonarlo, quel corso. Mi ha solo semplificato la vita." pensò, e con un'alzata di spalle, girò l'angolo.

Aspettò Artemiya ben mezz'ora, prima che scendesse, bardata di un giubbotto simile al suo, ma rosso.

Le gambe ricoperte da jeans attillati, ai piedi degli stivaletti neri. In testa un cappello stile afro, che conteneva la sua cascata di fili d'oro. Stringendosi nelle spalle, si aggrappò al braccio teso di Elisa, facendole mettere la sua mano nella sua tasca, al riparo dal freddo. Dolcemente intrecciò le sue dita con le sue, riscaldando quella mano gelata. A passo veloce si avviarono verso la fermata dell'autobus, puntando verso via Vittorio Veneto.

Il bus, ovviamente, era pieno di gente, e neanche un posto a sedere. Elisa, aggrappandosi alla sbarra lì vicino, strinse la bionda alla vita, aiutandola a stare in equilibrio. Il profumo dolce di lei la inebriò, e si sorprese con quanta velocità il bus arrivò alla loro meta.

Scendendo si avviarono al ristorante dove Elisa aveva prenotato. Mangiarono bene, il servizio fu ottimo e, per quanto fosse strano, Elisa non uscì nemmeno una volta per fumare.

Finita la cena, stettero al caldo del ristorante fino a che il vento e la sera calarono, quiete. Sempre mano nella mano, si avviarono verso la Via del Tritone. Ridendo, scherzando, correndosi dietro come piccole bambine in un gioco troppo bello per essere vero. Si parlava di tutto e di niente, rimanendo sempre limitatamente legate in un abbraccio così caldo che Elisa, ogni volta, si scioglieva al calore di lei.

Raggiunsero, senza accorgersene, Palazzo Chigi.

«Scusami Elisa, ma è tardi. È meglio che mi avvii per tornare a casa. Ho lezione domani mattina.» disse Artemiya, dispiaciuta del dover terminare quella serata magnifica.

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