Catena di cristallo

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Una mamma, un'amante, una figlia
un impegno, una volta, una nuvola scura
un magnete sul frigo, un quaderno di appunti
una casa, un aereo che vola

Cos'avevano detto i medici?

Caduta...impatto...coma...

Era davvero Elisa quel corpo abbandonato nel lettino d'ospedale? Quel letto che non somigliava per niente ad una bara di cristallo, ma nemmeno ad un letto di sete. Era Elisa quella donna lattea, le labbra incredibilmente rosse, sdraiata immobile tra i fili trasparenti dei macchinari medici?

- Come sta?

L'infermiera la prende per le spalle, la trascina via. Artemiya non ha più lacrime.

- Siete sorelle?

- No...

La porta che l'ha inghiottita...l'erba, la luce...il suo sorriso...

- Allora proprio non posso dirle niente...

- Sono sua moglie, maledizione!

È Elisa quel riflesso innocuo sul piatto dello stagno. Quella principessa dagli orecchini di cocco e il sopracciglio spaccato. Quella donna bellissima, padrona della seduzione delle stelle. È Elisa, che forse dorme, che forse sta per partire.

Artemiya schiacciò le labbra contro il cellulare. Lo stringeva da ore, le nocche bianche. Da quando la voce di Marco si era incrinata, da quando la richiesta era stata solo quella di chiedere scusa a Miss Merceaux per il ritardo. Da quando aveva paura di toccare la pelle morbida di Lei, per evitare di romperla, di contaminarla.

Era solo una bambola di porcellana.

Mia singhiozzò. Con timore, allungò una mano. I capelli bruni di Elisa erano morbidi. Morbidi come velluto, morbidi come ricordava. Vi passò piano le dita. Respirò il profumo che ne nasceva. E lasciò cadere la lacrima che tanto aveva pregato di scendere.

Tutto il resto è un rumore lontano,
una stella che esplode ai confini del cielo

Posare le labbra sulle sue. Ancora.

Per l'ultima volta, pensò straziata Artemiya, stringendo gli occhi, ti prego...rispondi...

Ma Elisa non rispose.

Fu il primo bacio a cui non diede risposta. Il primo bacio gettato al destino, che crudele gioca con bambole di pezza.

Artemiya pianse.

Pianse sul petto del suo universo, pianse chiamando il suo nome.

Pianse, e nessuno ebbe il coraggio di entrare in quella stanza per tredici ore.

Artemiya aprì gli occhi al giorno, stupendosi del dolore che le lame di luce le infliggevano.

Come se avessi pianto, pensò. Come se non avessi fatto nient'altro da una vita.

Si mosse, allungando la mano destra per trovare Elisa. Elisa che dormiva alla sua destra. Elisa che doveva dormire al suo fianco.

Trovò qualcosa di duro. Qualcosa di ruvido, come ricoperto di granelli di sabbia.

Non era la parete della loro stanza quella che la fissava. Era una parete verdina, di quel colore insano che sa di detergente. E medicinale.

Artemiya alzò la testa di scatto, prima di lottare contro il senso di vuoto che stava per trascinarla giù.

Sedie. Sedie di plastica nera, quattro sedie adibite a letto. E una coperta di pile azzurro, macchiato di caffè in un angolo.

Artemiya posò i piedi sul linoleum verde. Indossava gli scarponi. E i jeans grigi, sporchi di terra dal fianco sinistro.

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