Sole e tempesta

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Enrico guardava Salvatore avvolto in una coperta di pile blu adagiato sul suo divano. Tremava ancora, e non era per il freddo. I suoi occhi ghiacciati, quegli occhi che ogni volta che lo guardavano gli mettevano un'agitazione strana, fissavano il pavimento, per la prima volta smorti e rossi. In mano una tazza di caffè bollente. Soffiava, con quelle labbra sottili che Enrico aveva imparato a baciare, per raffreddare il liquido.

L'uomo dagli occhi scuri si strinse nelle spalle, stringendosi nella maglia leggera e la giacca che ancora non si era tolto. L'osservava appoggiato al muro, distante da lui.

Sentivo nella distanza il suo palpitare e dubitare.

Lui, che mi aveva sempre detto di esser solo un freddo amante delle passioni carnali.

Lui, che diceva di aver amato una sola persona nella vita: sua madre.

Lui.

E quel ragazzo che io avevo imparato ad accettare, ora trema sul mio divano.

Ora piange per il suo cuore infranto.

Ora si dispera per il suo primo amore apparentemente non corrisposto.

«Smettila di fissarmi.» mormorò, con la voce roca. Le lacrime ancora solcavano il suo viso, ancora galoppavano libere nella radura piena di steppa ispida. Ma Enrico si sentiva in colpa, quel corpo, quell'anima ferita, tremava per lui. E l'unica cosa che si sentiva di fare era scappare. Fuggire.

«Perché non scappi, sorellina? Perché continui a rimanere qui, ti fai solo del male!» Enrico guardava la sorella curarsi con delicatezza l'occhio pesto, per colpa del padre.

Elisa lo guardò, dal riflesso dello specchio, con quello sguardo serio. Pieno di saggezza determinata dal dolore e dalla sofferenza.

«Perché i problemi non si risolvono scappando, fratellino.» e congelò l'animo codardo del fratello, facendo crollare il suo sguardo colorato di steppa autunnale.

Preso dai suoi ricordi, non vide Salvatore tossire con forza. Ma lo udì. E quel rumore insano lo fece preoccupare.

«Sei malato...» mormorò, avvicinandosi premuroso. Si sedette, sfiorandolo leggermente, ma lui reagì con violenza.

«Non toccarmi!» urlò, scagliando con forza la sua mano lontana da sé. Una lacrima cadde.

E sentii quella lacrima cadere nel mio cuore e infrangersi contro la superficie morta.

Creò una continua onda, che s'ingigantì nel mio animo.

Talmente tanto da creare una bufera di dolore e lacrime trattenute.

I suoi occhi color ghiaccio lo fissavano con disperazione e rabbia nervosa. Enrico lo guardava come s'osserva un cane bastonato. Con pena, con dispiacere. Con disgustoso dolore non espresso.

«Io...» tentò di parlare, ma una vibrazione fastidiosa e ripetitiva provenne dalla sua tasca, susseguita da una suoneria anonima. Si alzò, decidendo di rispondere. Tirò fuori nervoso l'apparecchio, scorgendo il nome "Paola" sullo schermo luminoso.

Con un sospiro parlò.

«Pronto?» disse serio, con voce roca.

La risposta fu un doloroso lamento, susseguito da un singhiozzo represso.

«Paola, che c'è!?» Enrico spaventato urlò, facendo strabuzzare gli occhi dell'amico, ma non distogliendole da lui.

«Enrico... io... io...» Enrico non comprendeva, e la paura s'insinuò in lui.

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