Nel Mondo di Vetro

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Perché questa maledetta porta non s'apre?

Le matrioske di zia Inga sogghignano.

Mi fissano dall'alto del loro comò, in fila come soldati, brillanti e maligne con i loro sorrisi sicuri ed atroci.

Una, due, tre, piccole bambole assassine

Quattro, cinque, sei, zia, aiutami...

- Vieni, Artemiyka, esci di lì...

- Zia, il topino non si muove...

- Lascialo stare, vieni a bere il tè. Quando tornerai, sarà già nella sua tana al caldo...

Quante persone su di me. Mi chiamano, chiamano il mio nome. Come fanno a sapere come mi chiamo io? Perché questa mascherina sul viso?

Non voglio questa bolgia attorno. Non mi interessano queste donne col capo coperto –o è una donna sola? – né questi uomini corrucciati. Voglio lei...la donna con gli occhi di terra fertile baciata dal sole...la mia...Elisa...

Corro, corro. Le mie scarpe infantili fanno rumore sul pavimento: corro alla porta, mi allungo verso la maniglia.

Non s'apre. Tiro a me con tutte le mie forze, tiro ma non viene via, la serratura è cementata contro le mie braccia esili.

Mamma, mamma, chiamo, mamma, aprimi la porta!

E mi sveglio, sudata, nel letto che adopero quando sto a casa della zia. Non dormirò più nel mio lettuccio...

Zia Inga è una bella donna. È alta e fiera, la tipica donna russa impiegata nelle fabbriche dello Stato, il viso giovane precocemente invecchiato dalla crudeltà della miseria. O forse no, Inga non era bella. Non ricordo. Ricordo solo l'aurea argentea che si portava appresso nei giorni di pioggia.

Elisa profuma di ruta. L'ho sentito, una volta, il profumo di ruta nei suoi capelli. O forse no. Amo Elisa. Amo il profumo di ruta...

Svengo, prendetemi. Non lasciatemi scivolare di nuovo nel vuoto. Le matrioske sono vive, nel baratro. È il baratro del mio passato. Ti prego, Elisa, non guardarmi ora. Il mio passato è così terribile, amore mio, non sporcarti di sangue anche tu...

14 febbraio. Fa freddo. Le vie di Mosca sono tempestate di fiocchi di neve. Un bambino, avvolto in una grande pelliccia spelacchiata, gioca con un cumulo di neve, la schiena appoggiata allo steccato della fabbrica "железа и труб- CCCP". A pochi passi da lui, oltre un muro scrostato e il corpo massiccio di una caldaia accesa, Pavla Sokolova e suo marito, Efrem Sokol, spalano carbone da enormi sacchi neri. La deflagrazione lancia nell'aria carbone acceso, rottami, bulloni, la carne bruciata dei coniugi e brandelli della pelliccia del bambino.

Gli occhi neri di Inga sono gli stessi di mamma. Anche la sua voce è simile alla sua, è calda, serica, ti accarezza il viso ad ogni parola. Ogni suo sorriso è acqua fresca a gocce sul deserto.

Quanto male quando Igor' la picchia. Mi nascondo sempre quando lo fa, sembra un'animale infuriato. Poi l'afferra per i capelli, la trascina in camera. Piange un po', Inga. Mi abbraccia, e piange.

Cosa si sogna da bambini?

Era il tema del giorno, all'università. Non ricordo cosa sognavo. Soffrivo ogni giorno. Almeno la notte, almeno al buio, lasciate vivere questa bambina...!

Poi la barbara vita di Igor' finì. Ricordo che un giorno mi svegliai e vidi Inga intenta a sistemare il terreno dietro la casa. Mi disse che era partito, che era andato lontano. Elisa, tesoro, non voglio raggiungerlo...

Aveva i capelli neri come il corvo, la mia amica Magdalina. Amavo spazzolare quei lunghi crini di inchiostro, passarvi le dita ancora e ancora, solo per sentirne la morbida presenza. Ci conoscemmo a scuola, nella seconda classe elementare. Ricordo come camminavamo a braccetto, come ci isolavamo dal resto del mondo per scrivere nuove partiture per poi suonarle, a casa di zia Inga, io al piano e lei al violino, sempre assieme, con i nostri nastri portafortuna tra i capelli.

Com'è nero il mondo, Mag. Vedo come se fossi affogata nei tuoi capelli, come se non ti fossi annullata quel giorno di dicembre. Era il giorno del mio diciassettesimo compleanno, ricordi? Mi regalasti una spilla. La conservo ancora – beh, la conservavo. Quando ancora non ero morta. Perché sono morta, vero, Mag? Perché presto saremo di nuovo a suonare, tu ed io, nastro verde tra i tuoi capelli e nastro rosso tra i miei. E la morte nel mio cuore.

Quando Mag morì d'overdose a diciassette anni e tre mesi, zia Inga mi vide arrivare a casa con una mano fasciata. La spilla di mia sorella, quella spilla appuntita intarsiata di rubini, aveva aperto una ferita nel mio palmo, tanto l'avevo stretta. Il fazzoletto ricamato era macchiato di sangue. Guardavo senza capire i gesti affannati della zia, sentivo senza ascoltare le sue domande nervose e spaventate. Non avevano più lacrime, i miei occhi. Non esisteva più quella ragazza solare e angelica dai capelli corvini ed il violino sottobraccio.

Quando Mag morì d'overdose a diciassette anni e tre mesi, le matrioske ridevano. Ma io non le vidi affatto.

Dolore dolore dolore.

Come può una stanza di pece fare così male?

Svegliatemi, svegliatemi, vi scongiuro! Quanto dolore nel mio corpo...

...allora sono viva. Lampo accecante nella mente, consapevolezza. Sono viva...

...la morte non può fare così tremendamente male...

I suoi occhi sono così...belli.

Non ricordavo avesse occhi simili.

.....

Elisa si fermò, rapita, sull'uscio della stanza.

Artemiya era là, sdraiata tra le coperte bianche, la testa posata sui guanciali e gli occhi volti pensosamente al soffitto. I capelli biondi, corti di fresco, spettinati e sconvolti, creavano un curioso cuscino attorno al suo viso.

Un rumore la riscosse ed alzò la testa bionda, puntando ora le verdi pupille sulla figura in piedi a pochi passi dal capezzale.

Ed Elisa avvertì qualcosa, qualcosa di pesante e soffocante, scivolare via dal proprio cuore ed infrangersi contro l'immagine di Artemiya, viva e bellissima a pochi passi da lei.

E con la serenità arrivarono anche le lacrime che, senza lasciarle fiato per parole, la fecero cadere accanto alla sponda del letto ed affondare il viso nella morbidezza accogliente del suo seno – piangere.

Piangere lacrime amare e felici assieme non è mai stato più facile.

Artemiya sorrise. Carezzò intenerita la testa di Elisa, movendosi piano per non suscitare nel corpo una scarica di dolore. Rimase ad ascoltare i singhiozzi della donna con riconoscenza. Erano suoni vitali, era vita. Non era caduta nell'abisso...non ancora.

E iniziò a ridere. Rise a crepapelle per dieci minuti, squadrata da Elisa, spaventata da tale reazione. Poi allungò una mano e si appropriò di ciò che le spettava di diritto.

Prima di baciare le labbra di Elisa, ancora una parola: ti amo.

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