Sbarre Di Carta Velina

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«Fabrizio, ti lascio.»

E la mascella cadde irreparabilmente, rendendo l'accessoriato ventiquattrenne più simile ad una grottesca maschera dell'orrore che ad un essere umano.

Artemiya lasciò vagare gli occhi verdi attorno, posando la tazza di caffè sul piattino luccicante.

Il bar era zeppo di persone: attorno a quel tavolino in cui il tempo parve fermarsi, bambini imbronciati mangiavano brioche ripiene sporcandosi il mento, donne austere parlavano al cellulare, uomini d'affari si tenevano strette le valigie ventiquattr'ore. Nessuno che potesse accorgersi del vago senso d'imbarazzo che provava nell'affrontare quel discorso, per fortuna.

E a quel tavolo, un uomo guardava una donna con sguardo vagamente allucinato.

«Che cosa?» domandò debolmente Fabrizio, interrompendo la visione della sua ugola con un rapido movimento della bocca.

«Ti-lascio» ripetè Artemiya, prendendo coraggio e fissandolo dritto negli occhi.

Erano gli esatti opposti, quei due seduti al tavolo. Eppure erano stati una coppia per due anni, una coppia felice.

«Non puoi lasciarmi...» boccheggiò Fabrizio.

Sbagliato.

Gli occhi da gatta di Artemiya si fecero fessure e lo sguardo divenne affilato come una lama.

«Vuoi dirmi ciò che posso e non posso fare?» sibilò, e fu uno schizzo di veleno. E il povero Fabrizio, che era sempre stato un ragazzo ignorante sia di vita sia di cultura, per la prima volta nella vita intese bene il fulmine acido che turbinava nelle pupille di una femmina che si trovasse di fronte a lui.

«Amoruccio, senti...siamo stati così felici assieme, no? Io e te...» ma non riuscì a terminare la frase perché Artemiya lo interruppe bruscamente.

«No, Fabrizio: tu sei stato felice» disse dura. «Io sono stata semplicemente stupida. Io ridevo delle tue idiozie come una madre ride della demenza del figlio. E ti trovavo dolce, ed ero pietosa. Ma tu sei solo patetico.».

Fabrizio era rimasto immobile. Lentamente, allungò una mano per giocherellare con un cucchiaino. Parve pensare un poco a ciò che voleva rispondere, fissando le acrobazie di quel saltimbanco di latta che ridacchiava sotto i baffi della sua espressione ottusa, e alla fine riuscì solo a dire: «Patetico?».

Artemiya sorrise sprezzante e bevve un sorso di caffè.

«Precisamente. Il tuo infantilismo...».

Fabrizio batté un pugno sul tavolo e tazze e piattini tintinnarono.

«È questo che pensi di me? Solo questo?» ringhiò frustrato.

«Cosa vuoi che ci sia di più?» domandò Artemiya.

«Ti avrò pur dato qualcosa di buono, no?» ribatté Fabrizio.

«Certo» rispose calma la giovane. «Come ogni errore, mi hai insegnato a non prendere più la strada sbagliata.»

Si alzò con grazia e si caricò la borsa sulla spalla.

«Ora devo andare. Addio, Fabrizio. Spero tu sia felice.»

E se ne andò calma, la lunga treccia biondo cenere sulla spalla, lo scialle grigio svolazzante, lasciando Fabrizio con un conto da pagare e un pugno di mosche tra le sinapsi.

La piccola Carolina era una pianista discreta, dallo stile duttile e una grande capacità assimilativa e ad Artemiya era sempre piaciuto ascoltarla esercitarsi, ma quel giorno la sua mente pareva essere decisa a rimanere altrove.

Aveva lasciato Fabrizio, finalmente. Ma il suo infantilismo era stato una scusa - l'ennesima.

Certo, era felice di non doverlo più osservare quando, in pizzeria, prendeva il bordo della pizza con due mani come un volante e iniziava a fare brum brum come sfoggio della sua fulminante intelligenza. Ma era più felice ancora di non dover più sottostare a quei baci insipidi, di non dover accoglierlo ogni notte senza provare niente se non un gran senso di vuoto e noia.

Inizialmente queste sensazioni l'avevano preoccupata - perché la totale indifferenza alla virilità di Fabrizio era preoccupante, no? - ma infine era giunta ad una conclusione che la soddisfaceva: non era l'uomo per lei. Sarebbe bastato trovare quello giusto perché tutto tornasse alla più completa normalità...non c'era niente di sbagliato in lei.

Le note de Il canarino è morto furono interrotte bruscamente da uno scivolone alla decima battuta e Artemiya si riscosse, incontrando gli occhi corrucciati della sua giovane allieva.

«Mi scusi, ho pestato male il pedale...» mormorò  in fretta Carolina.

Artemiya le sorrise.

«Non fa niente, le prime volte sono sempre le peggiori. Riparti daccapo, e sta attenta.».

Carolina ubbidì e cacciò la lingua tra i denti per una maggiore concentrazione. Il pedale le dava noia, non era ancora abituata ad abbassare le dita e alzare il piede in sincrono seguendo ritmi differenti. Ad un tratto sbagliò di nuovo, e le spalle ricaddero tristemente assieme alla frangetta.

«Non ci riuscirò mai!» esclamò mestamente.

Artemiya si alzò dalla poltrona.

«Fammi posto» disse, «io suono e tu schiacci il pedale, d'accordo? Ce la fai?».

Così iniziò a suonare e ad ogni nota un petalo di dubbio cadde dal suo bouquet di preoccupazioni, mentre Carolina premeva il pedale con regolarità, osservando le sue lunghe dita bianche accarezzare la tastiera.

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