Per Il Tempo Che Verrà

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Palazzo Fermi, davvero, era impressionante. Si stagliava solido oltre ogni altro edificio delle vicinanze e... t'investiva.

Ecco perché Artemiya si era bloccata là davanti, stringendo il quaderno pentagrammato in cui aveva scribacchiato - a mina, a inchiostro, a volte anche a matita per occhi - le sue melodie.

Non ce la posso fare, pensava febbrilmente, ora mollo tutto, scappo in Botswana. E il suo cervello prese a snocciolare dati sulla repubblica del Botswana per allentare la tensione.

«Allora, Mia? Andiamo, su!» Agnese la prese gentilmente per le spalle.

«No,no!» negò Artemiya : fossi matta.

Elisa si era assentata. Andate, aveva detto, io torno subito.

«Mia, forza.» l'incoraggiò Marco. Lei non vedeva nessuno in faccia, aveva gli occhi puntati al palazzo. Non si accorse dell'arrivo di qualcun'altro finché questo non le cinse il collo con le mani, rilasciando qualcosa di freddo e piuttosto pesante.

«Et voilà!» soffiò Eduardo Ranieri: «L'abito non l'ho potuto portare, ma il collier sì.».

Artemiya si riscosse, portandosi una mano alla gola: il Cuore dell'Oceano.

«Eduardo...» disse. «Grazie...».

«Non devi ringraziare me» disse lui, «piuttosto, ringrazia Marco: il merito è suo.».

Marco gli gettò un'occhiata di amichevole disprezzo che fece sorridere debolmente la pianista.

Eduardo, dopo aver strizzato l'occhio al giovane, guardò l'orologio:

«È ora, cara.».

«Come ha finito le rose rosse?».

Il fioraio, un ometto tailandese basso e smilzo, indietreggiò di un passo.

«Fo-forse ne ho ancora qualcuno» balbettò «ma...ma dodici ...insomma, no...».

Elisa si guardò attorno, scacciando con una mano le lunghe braccia di una fucsia che le solleticavano una spalla.

«Allora...mi dia quelle che ha» sentenziò gravemente, «e un giglio arancio.».

«Un lilium davidii?» chiese il fioraio, mantenendosi a distanza di sicurezza.

«Fa come vuoi!» rispose lei bruscamente.

L'omino zampettò indaffarato attorno al banco per due minuti. Poi le presentò un bouquet pieno di nastrini svolazzanti.

Elisa lo afferrò, attenta a non sgualcirlo, pagò e corse fuori.

Dove diavolo stava Palazzo Fermi?

Miss Merceaux era una donna sulla settantina, piccola e minuta, dai capelli grigi stretti in una crocchia. Indossava un abito viola - dannazione! Che carogna... - e la sua espressione era sull'arcigno stabile. Sedeva su una sedia Luigi XVI con schienale e sedile in velluto verde imbottito. Accanto a lei, su un pezzo gemello, un uomo in gessato e dolcevita nero, dai capelli brizzolati.

C'era molta gente. Alcuni giornalisti locali, curiosi, turisti assorti nella contemplazione dei quadri appesi alle pareti, musicisti e direttori d'orchestra.

Stava suonando un giovane dall'aria snob, Odile Merceaux non dava segno d'ascoltare e l'uomo accanto a lei si muoveva nervoso.

«Non posso farcela.» disse fermamente Mia: «È una pazzia.».

Si voltò verso i suoi accompagnatori:

«Grazie, ragazzi. Dite ad Elisa che non si disturbi a...».

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