Liberarsi dalle lacrime pesanti

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Si deve soffrire per scoprire il gusto del conforto.

(Valeriu Butulescu)

Erano ancora lì, sul divano, abbracciate una all'altra, intrecciando le loro mani in una presa forte e amorevole. Elisa poteva udire il suono del cuore di Artemiya battere dolcemente, e percepire il suo respiro calmo e regolare. Avrebbe vissuto in eterno con quel suono nelle orecchie.

Quella mattina rimasero in silenzio, senza parole ma solo semplici gesti che dicevano tutto. I loro cuori erano talmente collegati e uniti tra di loro che le parole erano superflue, inutili tra di loro che parlavano nella lingua ancora sconosciuta degli innamorati.

Ho il cuore libero, e tu angelo mio mi stai facendo crescere le ali.

Dimmi amore mio, di che colore saranno?

Potranno essere abbastanza forti per sostenermi?

Mi permetteranno di volare insieme a te?

Ma Elisa non era così egoista. Il pensiero del fratello minore, abbandonato nel suo appartamento, ferito e dolorante, scuoteva il suo animo, facendola diventare inquieta.

Vestitasi Elisa andò all'ospedale, facendosi togliere la stecca che ormai non serviva più, sostituita da una fasciatura leggera per le ferite non ancora rimarginate.

Con il braccio fasciato e legato al collo, girarono l'angolo ridendo e scherzando, trovandosi davanti l'uomo che mai avrebbero voluto vedere: Enrico.

Il fratello la scorse, e con passo sicuro si diresse verso di lei.

Un silenzio calò tra loro, ghiacciato, freddo, cupo. Artemiya, ancora memore del giorno prima, si aggrappò al braccio buono di Elisa quasi volesse proteggerla da lui, il suo stesso sangue.

«Ciao fratellino...» disse sicura, scrutandolo dal basso. Non aveva più paura e non faceva più fatica a sostenere quello sguardo. Quegli occhi verdi e scuri. Palude morta.

«Sorellina...» sussurrò. Il suo tono era diverso. I suoi occhi erano diversi. No, non gli occhi, la luce che li animava.

«Che ci fai qui? Mi stavi forse cercando?» chiese con rabbia. Ancora nella sua mente la mano di lui che scagliava Artemiya nel letto, facendola svenire. Ancora in corpo l'ardore e il fuoco di ieri.

«No, io...» ma le parole di lui erano incerte, insicure.

Paura. Aveva paura. E il senso di colpa.

«E allora cosa fratello? Il senso di colpa ti sta forse uccidendo?» l'indifferenza rischiarava le parole di Elisa, crudele, secca.

Enrico non sapeva dove mandare lo sguardo. Era la prima volta che si sentiva così.

«Ricorda Enrico... un Santoro non perdona.» la voce profonda del padre stava dando un altro comandamento.

«Certo padre.» rispose pronto. Doveva scattare, doveva essere sempre veloce a rispondere. Doveva dare l'impressione di essere suo, di prendere le sue parole come oro colato. Anche se tutto ciò che lui diceva lo considerava come stupide bugie.

«E soprattutto... un Santoro non ha sensi di colpa. Ogni cosa che fa è giusta. Non sono ammessi gli errori.» e gli occhi verdi del padre incutevano in lui la paura. La paura di finire come la sorella, la paura di deludere, la paura di essere considerato come carne da macello.

«Io... io...» Non riusciva a dirla. Quell'amara parola non usciva dalla sua gola. Quel giorno sarebbe stata la seconda volta che l'avrebbe detta.

Pugni, dolore, sangue. Enrico incassava. Quelle budella nel suo corpo erano attorcigliate, i muscoli in tensione. Doveva resistere. Doveva riuscire a dire quella maledetta parola prima di finire svenuto. No, non doveva svenire. Un Santoro non sviene mai.

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