34th: photo-shoot (part two)

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Harry's point of view

Guizzai via dalla sedia appena la signing si concluse.

Non avevo idea di dove andare, sapevo solo che Annabeth non sarebbe finita nuda sui cartelloni pubblicitari di Victoria's Secret.

Entrai velocemente in macchina e sfrecciai via prima che le fan potessero riconoscermi e seguirmi, ma la verità era che non avevo idea di dove andare.

Non ero mai stato in quel posto e non sapevo se addirittura lei si trovasse ancora a Londra.

Tutto era possibile. Poteva essere giusto dietro di me oppure dall'altra parte del mondo, e io ero all'oscuro di tutto questo.

Non avrei chiamato Cara Delevigne, la troia che l'aveva fatta piangere in un misero camerino. Avrei preferito essere arrestato che chiamare quell'essere disgustoso e chiederle qual era la strada giusta.

Avevo già percorso venti miglia quando mi trovai su una strada sterrata decisamente troppo lontana dal centro.

Brandon non aveva saputo darmi informazioni e io non sapevo dove sbattere la testa. Essere Harry Styles a volte non serviva a niente.

Riluttante composi il numero di Cara, e nemmeno due squilli dopo, mi rispose.

«Harold

Sbuffai sonoramente a quel nomignolo.

«Devo chiederti solo una cosa, quindi evita.»

«Un lavoretto?» La sentii ghignare dall'altro capo del telefono.

«Sempre la solita puttana, eh?» Ridacchiai sperando di averla ferita. Ma doveva esserci abituata, perché anche lei rise di rimando.

Dopo una sudata conversazione riuscii ad ottenere quello che volevo e non indugiai a correre sulla superstrada superando il limite di velocità.

All'entrata dell'edificio bastò dire il mio nome che gli occhi di tutti furono puntati su di me. Venni scortato da un uomo vestito con un completo ridicolo, che mi fece intendere il suo orientamento sessuale non appena iniziò a farmi complimenti sul mio abbigliamento, gesticolando come un italiano, e io fui costretto a ridere alle sue battute. Il mio unico pensiero era Annabeth e cosa cazzo ci faceva là dentro.

Arnold, il nome dell'uomo assomigliava schifosamente al mio, aprì la porta della stanza e mi lasciò entrare.

Cercai di trattenere la calma ma la rabbia pulsava nelle mie vene. Sentivo l'irritazione crescere fino ad un livello di non ritorno, ma mi obbligai a non esternare le mie emozioni, mantenendo un'espressione seria.

Annabeth mi guardava a labbra socchiuse e io mi persi a sprofondare nei suoi occhi piuttosto che far caso al suo nuovo colore di capelli e ai pochi vestiti che la coprivano.

Dio, fa che non capisca che mi sta distruggendo.

Continuò a posare in silenzio, facendo finta di non notarmi.

Le mie gambe si muovevano a scatti, spinte da spasmi incontrollabili mentre Annabeth riusciva a mantenere il controllo senza incrociare i miei occhi. Mi sentivo come tagliato fuori dalla sua vita, in quel momento. Come se non esistesse altro al mondo che lei.

Le ciocche ricce mi cadevano sugli occhi e per la medesima volta le spostai via incastrando le dita tra i capelli e spingendole indietro, cercando di domarle appena per un secondo.

Poi sarebbero tornate a solleticarmi la fronte, ma non sapevo dopo quanto tempo sarebbe successo. Sapevo solo che era inevitabile.

Come il mio rapporto con l'unica ragazza che guardavo ammaliato mentre si rotolava fra le lenzuola bianche, sorridendo di tanto in tanto.

month » h.sDove le storie prendono vita. Scoprilo ora