Capitolo Trentanove

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La condusse nei giardini olografici, e miracolosamente Kerol non fece obiezioni. Forse pensava che se lo avesse ascoltato avrebbe potuto liberarsi di lui una volta per tutte.

In effetti, Samiel desiderava solo parlarle, ma non era il semplice perdono, ciò a cui puntava. Aveva un piano, in mente. Un'offerta la quale, a parer suo, Kerol non avrebbe potuto rifiutare.

Essendo un sabato di giugno, Samiel si aspettava di trovarvi molti studenti, ma i giardini erano deserti. Molti di loro dovevano avere già dato i loro esami ed essere tornati a casa per le vacanze estive. Gli altri dovevano invece essere rinchiusi all'interno dell'Accademia, per studiare.

Non ebbe tempo di chiedersi se si trattasse di una coincidenza, ma avere Kerol tutta per sé ancora una volta era tutto ciò che avrebbe mai potuto desiderare. Poco sapeva, di dove quel silenzio e quella solitudine lo avrebbero condotto.

Kerol cercava di distrarsi, di non ascoltarlo, di fingere che Samiel non fosse lì. Si concentrò sui fiori che costeggiavano il percorso. Alla loro destra vi erano la magnolia e il chiosco, e oltre il laghetto. Loro due stavano invece camminando sul sentiero verso una zona diversa, al limite sud dei giardini e quindi dell'Accademia stessa.

Era il cosiddetto giardino blu. Il sentiero si tramutava in una piccola scalinata che scendeva fino a un secondo laghetto, più piccolo dell'altro. Oltre a esso vi erano degli iris di un indaco intenso, e attorno crescevano la scabiosa e l'agapanto, di un blu delicato.

Kerol aveva sempre amato quel luogo. Lì si era irraggiungibili. Si era protetti dalla vista degli altri, grazie agli alti cespugli di lauro che costeggiavano i giardini, e a quelli del suo fiore preferito, che crescevano abbracciando il laghetto e delimitando quell'angolo celato e ameno – le rose blu.

Kerol non era un'esperta di fiori e piante, ma sapeva abbastanza a proposito delle rose blu. Erano solo ologrammi, in quel giardino, e non avrebbero potuto essere nient'altro. Non esistevano. Non erano mai esistite. Avrebbe tanto voluto coglierne una, senza che svanisse tra le sue mani. Simboleggiavano tutto ciò che era irraggiungibile e impossibile. Proprio come l'amore che Samiel stava cercando di risvegliare in lei.

«Ora basta» disse Kerol, interrompendolo, spostando l'attenzione dai fiori al suo volto. «Che cos'è che devi dirmi? Che cosa vuoi davvero?» chiese. «Sii sincero, per una volta.» La sua voce era sorprendentemente calma, ma era chiaro che non ammettesse repliche.

«Mi sei mancata tanto, Kerol» cominciò a dire lui, avvicinando una mano al suo viso.

Kerol la schiaffeggiò, costringendolo ad abbassarla e a ritrarla. «Ho detto basta con i giri di parole» disse, a denti stretti. «Che cosa diavolo vuoi?»

«Voglio che torni con me» disse Samiel, con una serietà che Kerol non credeva possibile. Non da lui. La guardava negli occhi, senza tremare. Senza esitare. «Voglio un'altra occasione per dimostrarti che sono cambiato. Una soltanto» la pregò, alzando un dito.

Kerol si perse solo per un attimo a percorrere con lo sguardo la forma della sua mano, tanto delicata ed elegante, la sua pelle dorata e liscia. Le mancava, la sensazione di quelle dita mentre la sfioravano. Doveva ammetterlo.

Ma era solo un ricordo.

Questa volta fu lei a distogliere lo sguardo, e a pentirsi e a odiarsi per non riuscire a sostenere quello di Samiel. Che cosa le stava succedendo? Perché il suo cuore stava battendo così forte? Proprio ora che era riuscita a dimenticare di averne uno. Proprio ora che era riuscita a convincersi di non averne mai avuto uno.

«Ti prego» continuò Samiel, venendo ancora più vicino. E la sua voce, questa volta, fu troppo.

No. Fu sufficiente. Fu abbastanza perché Kerol cedesse, anche solo per un secondo, e si lasciasse stringere di nuovo nella morsa di quelle braccia traditrici, perché si lasciasse baciare ancora una volta da quelle labbra mendaci.

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