Capitolo Dieci

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16 aprile 1579

Come era possibile che avesse dormito solo sei ore? Solean rimase perplesso quando si svegliò, e una volta abituati gli occhi alla luce notò che l'orologio segnava le 7:55.

Eppure, si sentiva riposato. No, non era riposo, quello. Molto più probabilmente, il suo cervello era più terrorizzato dall'idea di trovarsi scaraventato di nuovo in quell'incubo, piuttosto che affrontare la giornata sopraffatto dalla stanchezza.

Ma che cosa aveva di tanto terrificante, quel sogno? Appena questo pensiero attraversò la sua testa e Solean tentò di ricordare, la scena si proiettò di nuovo davanti ai suoi occhi. Non per intero. Soltanto spezzoni, frammenti, immagini. Ma fu abbastanza.

Il vento. Le nuvole. I fulmini. Il grattacielo oscillante. Dei demoni che si fingevano i suoi genitori. Poi le scale. L'uscio, invalicabile. La porta. Rozsalia.

E poi le fiamme.

Le aveva detto di andarsene, ma lei non lo aveva ascoltato. Aveva tentato di salvarlo, ma non poteva. Perché era un sogno. Era solo un sogno.

Ciononostante, il primo istinto di Solean fu quello di avvicinarsi alla finestra, che dava sulla strada, nella speranza di intravedere la figura di Rozsalia.

Ma non la vide, ovviamente. La strada non era più deserta, come lo era nel suo sogno. Vi si affollavano vetture, che sfrecciavano fulminee. Il traffico scorreva pacifico e ininterrotto.

Si passò una mano sul volto, dandosi dello stupido. Era un sogno. Lo aveva appena detto. E allora perché stava cercando Rozsalia?

Forse solo perché non era al suo fianco.

Solean si fece coraggio, e uscì dalla porta della sua camera da letto. Nonostante vi abitasse da tre giorni, ancora non la sentiva come casa sua. Se anche lo era stata, in passato, non ne aveva ricordi, oppure i ricordi non ritornavano. Doveva significare, pensò il giovane, che non li ritenesse molto importanti.

Infatti, non appena aveva messo piede nella sua stanza all'Accademia, si era ricordato che quella era casa sua. Forse Solean aveva già abitato in quel palazzo nel quartiere di Wedenak, un tempo, ma se anche così era stato, doveva essere da anni che non vi metteva piede. Forse se n'era andato quando era ancora molto piccolo?

No, neanche questo era possibile. La camera di un bambino non poteva essere così grigia. Neanche un disegno. Neanche un pupazzo. Neanche un giocattolo.

I muri erano bianchi e spogli, le tende alle finestre un grigio scuro, i serramenti di ferro nero, così come la rete e la testiera del letto. Le coperte erano l'unico elemento che desse una sorta di colore alla stanza, ma ancora si trattava di un grigio bluastro.

Quali genitori si sarebbero liberati di ogni elemento che riportasse alla mente l'infanzia del proprio figlio? O figlio adottivo che fosse, se Raksos era il suo cognome acquisito e non di nascita. Ma perché eliminare ogni traccia dei primi anni di Solean con loro, mentre per di più sostenevano di volerlo aiutare a recuperare i suoi ricordi?

Ancora, però, Solean non se la sentì di valutare. Forse gli avevano assegnato quella che aveva tutta l'aria di essere una triste stanza per gli ospiti perché un eccesso di ricordi, recuperati in maniera diversa da quella che prevedeva il loro progetto, avrebbe fatto più male che bene. Solean poteva solo affidarsi ai coniugi Raksos, nella speranza che i due volessero davvero il suo bene.

Dopo una rapida sosta in bagno e un altro tentativo fallito di eliminare ogni traccia di torpore dal suo corpo, Solean scese le scale. I suoi passi risuonavano compatti, a ritmo regolare, sulle lastre di pietra grigia e liscia. Vi era uno spazio, tra un gradino e l'altro, come se le pietre che componevano la pedata fossero state semplicemente conficcate nel muro adiacente. Solean aveva paura che, se se ne fosse allontanato troppo, la lastra si sarebbe spezzata sotto il suo peso.

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