Capitolo Ventisei

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La risata isterica di Sagi riecheggiò per la caverna.

«Erano entrambi Djabel?» chiese Larenc, che cominciava a intuire la verità. «Due Djabel hanno creato un mostro?»

Sagi smise di ridere, e prese a camminare, lento, in direzione dei due giovani, ormai con le spalle al muro. «Be', è per questo che li chiamiamo mostri, o sbaglio?» Il suo ghigno, per quanto giallastro, brillò nell'oscurità della nicchia. «Non sono semplici animali, semplici forme, semplici illusioni. Sono infezioni, corruzioni, chimere» prese a elencare, ormai vicino al cadavere del giovane uomo, tirando un calcio a quel corpo senza vita a ogni insulto che lanciava ai mostri del Vuoto.

Come se fosse colpa sua. Come se i Djabel fossero la causa di tutto.

«Sono mostri» disse poi, con voce nuovamente serena, tornando a guardare i due giovani. «Alcune forme riescono a convivere, mentre altre sono incompatibili, e muoiono, da sole. Ma di certo non restano tali. Tutti i mostri che vedete sono Djabel morti prima che le loro capacità cerebrali degradassero abbastanza. I rimasugli delle loro illusioni prendono vita un'ultima volta, mentre loro passano alla morte, si fondono con esse in un disperato tentativo di aggrapparsi alla vita, e sono incatenati alla loro forma mostruosa, fino a che qualcuno non li libera.» Fece cenno alla pistola, ancora stretta nella mano destra di Larenc.

Il giovane la ripose nella fondina, istintivamente. Si sentiva macchiato del peccato dell'omicidio di due Tesrat, due compagni. Si sentiva colpevole della morte di Khilents Annekha, perché aveva visto il suo cadavere solo dopo aver sparato alla Manticora.

«Si rifugiano nel Vuoto, seguendo gli istinti, seguendo i propri simili, e vivono come bestie, fino a che Erran non li richiama, per trovare la morte una seconda volta, tra le onde del mare. La loro umanità, nascosta ma presente, li porta a un suicidio. Muoiono una seconda volta per tornare a essere Ember. O almeno, questa è la mia teoria. Strano, eh?» Sogghignò di nuovo.

«Tutti i mostri stanno cercando la morte?» chiese ancora Larenc, senza capire.

«Non mi hai ascoltato?» alzò la voce Sagi, spazientito, come un professore di fronte a un alunno distratto. «Tutti i mostri sono già morti» ripeté, scandendo ogni parola, e avvicinandosi al giovane uomo.

I suoi occhi azzurri scintillavano, e Larenc poteva sentire il tanfo del suo alito, mentre si tirava indietro, trattenendo il respiro.

«Tutto qui?» parlò Kerol, distogliendo l'attenzione di Sagi da Larenc. «Avresti potuto dircelo prima» disse, calma, alzando le spalle.

No, capì Larenc, Kerol non era calma. Stava giocherellando con le dita, stringendo una mano nell'altra, strofinandole. E non era a causa del freddo. Kerol aveva paura.

L'espressione sul volto di Sagi s'incupì. «Hai la minima idea di che cosa significherebbe, per noi Djabel, se si venisse a sapere?» alzò il tono di voce, ora avvicinandosi alla ragazza.

«Tu sei un Djabel?» balbettò Larenc, ma non venne udito, oppure venne ignorato.

Sagi continuò a parlare. «Ora non solo l'Imperatore ci imporrebbe con chi passare il resto dei nostri giorni sul campo di battaglia.» Fece cenno a Larenc, mentre i suoi occhi feroci erano fissi su Kerol. «Ci assegnerebbe anche un compagno di fossa, in modo da impedirci di vivere di nuovo come mostri! Ci sarebbero leggi su leggi,» gesticolò, «regole su regole su ciò che possiamo e non possiamo fare in quanto Djabel, e non più in quanto Ember. Non saremmo più liberi di avere figli. Non saremmo più liberi di combattere in prima linea. Non saremmo più liberi di esistere!»

Kerol sbuffò alla parola liberi. Sagi era un illuso. «E questo non sarebbe meglio?» ribatté. «Non pensi al bene di Zena? A ciò che è meglio per l'Impero?» ripeté le frasi che si era sentita dire innumerevoli volte, mentre l'avevano accusata di essere una traditrice.

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