Capitolo Quarantaquattro

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«Jali!» Solean irruppe nell'infermeria, chiamando il suo nome. Corse per un intero corridoio, cercando il suo viso tra le infinite facce bianche e smorte dei malati e dei feriti, pregando di vedere i suoi capelli rossi, da qualche parte.

A un tratto si sentì prendere da qualcuno per una manica della giacca. Si voltò di scatto nella sua direzione, guardandolo con occhi pieni di fuoco. Nessuno gli avrebbe impedito di andare da Jaliarin.

Rendendosi conto che si trattava di un Megert, però, Solean cambiò il suo sguardo in uno che era severo, ma non furioso.

Era il Comandante degli Yksan. Era la massima autorità, a Noomadel, e rispondeva solo all'Imperatore. Chiunque altro avrebbe dovuto obbedire anche al più stupido dei suoi ordini.

«Per favore, abbassate la voce» lo ammonì il Megert, seppur con tono pacato. «I malati stanno riposando.»

Solean sospirò, scusandosi, e provando vergogna. Se voleva essere rispettato dagli Yksan, doveva prima mostrar loro rispetto. «Devo andare da Kozerog Jaliarin.»

Devo, pensò. Che scusa stupida.

Il Megert cercò di dissuaderlo. «Kozerog sta lentamente perdendo ogni capacità motoria e cerebrale» spiegò. «Nel giro di qualche minuto non sarà nemmeno in grado di articolar parola.»

«Non importa» insistette Solean, in preda all'ansia e alla fretta. «Non aveva comunque mai parlato.»

«Questo non è verosimile» disse il Megert, scuotendo la testa. «Perdonate, ma dovete esservi sbagliato. La Kozerog Jaliarin ricoverata qui non ha fatto altro che ripetere le parole aiuto e Solean da quando è arrivata.»

Solean aggrottò le sopracciglia. «Ma il suo sfregio cerebrale...» Valutò le possibilità. «Il suo sfregio le aveva tolto la capacità di parlare.»

«Oh, capisco.» Il Megert annuì. «Deve aver recuperato» concluse, alzando le spalle, come se si trattasse di un evento comune.

Recuperato. Quindi si poteva recuperare, pensò Solean. Certo che si poteva, si disse ancora, ricordando di Kerol. Anche lei aveva recuperato le sue capacità, dopo uno sfregio che le aveva tolto l'udito.

E lui stesso. Il semplice fatto che ricordasse Kerol e il suo racconto erano una prova sufficiente.

Sembrava ingiusto che tanta speranza gli venisse portata in un momento tanto triste, che proprio ora si sentisse quasi obbligato a gioire, perché avrebbe potuto ricordare sempre di più di Rozsalia, di Larenc, e degli altri suoi amici del quintetto, mentre il suo sfregio cerebrale, come una vecchia ferita, si stava rimarginando.

Ma, in fondo, è solo quando si è immersi nel buio più totale che si può apprezzare anche la più piccola luce.

Solean non riuscì però a pensare a se stesso ancora a lungo, perché Jaliarin chiamò il suo nome, con voce fioca. Solean capì che era lei. Riconobbe la sua voce senza averla mai udita. Rivolse di nuovo lo sguardo verso il Megert, il quale annuì, e si fece da parte, lasciandolo procedere in direzione del capezzale di Jaliarin.

Si avvicinò al letto, e inorridì. Non solo la sua caviglia, ma tutto il piede e il polpaccio, fino al ginocchio, ora erano di un viola scuro, tendente al nero. Il veleno doveva essersi già diffuso in tutto il suo corpo e, come avevano detto i Megert, non doveva esserci più nulla da fare.

Solean si sedette su una sedia, accanto al letto. Deglutì, senza sapere che cosa fare, o che cosa dire. Aveva solo una frase in testa, che avrebbe voluto urlare. Così la lasciò uscire dalla propria bocca, ma con più delicatezza. «Mi dispiace.»

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