Capitolo Cinquantaquattro

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Rozsalia si svegliava sempre molto presto, ogni mattina, e con grande rammarico. Alzarsi dal letto significava abbandonare Solean. Ma, ogni volta, prometteva che sarebbe tornata presto.

All'inizio, dormiva nella stanza accanto a quella di Solean, rimanendo quindi comunque nella parte maschile della residenza. Dopo qualche giorno, era arrivata a prendere posto su un divanetto, nella stanza di Solean, per stargli più vicino. Nel giro di un mese, si era rassegnata, e aveva cominciato a dormire nello stesso letto.

Faceva molta attenzione a non urtare i fili collegati alla macchina che registrava il suo battito cardiaco, al cui ritmo aveva ormai fatto l'abitudine. Quando si svegliava, salutava Solean con un bacio sulla fronte prima di alzarsi, e un altro prima di uscire dalla porta.

Si recava alla piccola valle fuori dalla città, per addestrare i Djabel, che stavano facendo sempre più progressi. Ma Rozsalia non voleva aiutarli al fine che vincessero la guerra. Voleva che si convincessero di non essere Tesrat, che capissero di non essere Yksan, e che ricordassero di essere Ember. Se solo tutti loro lo avessero fatto, la guerra sarebbe finita.

Buchas Therius era un ragazzo singolare. Lo sfregio doveva avergli portato via la capacità di ragionare, di agire nelle situazioni più semplici. Lo aveva ridotto a essere di nuovo un bambino, impaurito da se stesso e dal mondo che lo circondava, e bisognoso di attenzioni. Talvolta veniva spaventato dalle sue stesse illusioni, e ne perdeva il controllo.

Al contrario di Solean, Rozsalia non riusciva a prendere il controllo delle illusioni di altri Djabel – come d'altronde nessuno era in grado di fare – così, quando trattava con Therius, gli dedicava la sua più completa attenzione, e nel caso in cui uno dei serpenti sfuggisse dal controllo del giovane Djabel, Rozsalia creava la propria Fenice, in modo da occuparsene. Il grande volatile composto da fiamme scendeva in picchiata, accarezzando il terreno ora freddo e innevato, e afferrava il serpente con gli artigli. Poi volava via, sparendo tra le nuvole o dietro la linea dell'orizzonte.

«Dove va?» chiedeva Therius, ogni volta.

Rozsalia tirava un sospiro, silenziosa. Aveva bisogno di molta pazienza, per trattare con Therius. Ma quel Djabel aveva delle potenzialità. «Va a vedere il mondo» rispondeva lei, sempre.

Therius prendeva allora ad annuire, e abbassava la testa. Poco dopo, tuttavia, alzava di nuovo il capo, e si rivolgeva nuovamente a Rozsalia. «Come sta?» chiedeva, senza mai specificare a chi o a che cosa si stesse riferendo.

E Rozsalia, senza capire, rispondeva con una bugia. «Sta bene.»

Aveva pensato che si stesse riferendo ancora al serpente, all'inizio, ma poi quelle domande si fecero meno sporadiche. Nemmeno nel suo cervello danneggiato da chissà quale sfregio avrebbe potuto avere un senso.

Therius cadeva ancora una volta nel circolo vizioso del suo ripetitivo annuire, e Rozsalia doveva spingerlo via, piano, per convincerlo ad andarsene, quando si faceva buio.

Ormai era dicembre, e le giornate si accorciavano. Ma anche quando cadeva la neve, gli addestramenti dei Djabel non si interrompevano. Ognuno aveva il diritto e il dovere di ricordare come utilizzare le proprie illusioni. Ogni Yksan aveva il diritto e il dovere di tornare a essere un Djabel.

 Ogni Yksan aveva il diritto e il dovere di tornare a essere un Djabel

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