Capitolo Sessanta

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6 ottobre 1582

L'ennesimo sospiro di Kerol catturò l'attenzione di Calud, e i suoi istinti.

Era il pomeriggio di un giorno grigio. Forse una tempesta di sabbia si sarebbe abbattuta sul nord di Gejta. Le nuvole all'orizzonte erano di un marrone rossastro, e presto avrebbero investito la prigione. Solo i detenuti sarebbero stati effettivamente protetti dalle raffiche di vento e dagli infiniti granelli di sabbia che avrebbero graffiato e accecato tutti gli Orsem Guardia di turno.

Anche Calud sospirò.

«Perché non mi lasci uscire per qualche minuto, prima che arrivi la tempesta?» domandò Kerol, quando una raffica di vento si placò.

Tolecnal Calud si voltò, le sopracciglia alzate in un'espressione incredula. «Perché, hai chiesto?» rise. «Perché sei una prigioniera» rispose alla domanda più semplice del mondo.

«Ma ormai tu sai che il mio destino è di rimanere chiusa qui dentro» continuò la giovane donna.

«Non conosco il tuo destino» disse Calud, scuotendo la testa. Destino era una parola che aveva imparato a odiare.

«Come minimo sai che l'Alto Imperatore mi ha condannata all'ergastolo» ritrattò Kerol. «E se mi ci ha condannato lui, significa che non uscirò mai da qui.»

«Esatto» convenne Calud. «Quindi che c'è di tanto sorprendente, se non ti lascio uscire?»

«Avanti, solo per qualche minuto...» insistette Kerol, come fosse una bambina che voleva salire un'ultima volta su una giostra. Si aggrappò alle sbarre, graffiandole, come avrebbe fatto un gatto, provocando un suono fastidioso.

Calud si voltò. «Diamine, Lanes!» imprecò, e la giovane sorrise, ritraendo le mani, e portandosene una alla bocca, a nascondere quel ghigno malizioso.

Gli occhi di Calud percorsero la sua intera figura, coperta solo dalla vestaglia che Kerol usava per dormire. Ed era una semplice canottiera, troppo scollata e troppo corta perché la giovane potesse permettersi di uscire dalla protezione visiva del separé senza secondi fini.

Calud lo capì, come l'aveva capito ogni altra volta. E non poté fare a meno di guardare, come non aveva mai potuto fare a meno di sbirciare e di immaginare ogni volta che sentiva scorrere l'acqua della doccia.

Kerol si avvicinò di nuovo alle sbarre, aggrappandovisi e sporgendosi di un poco in avanti. Ogni mossa era calcolata. «Andiamo, Cal—»

«Zitta» ordinò la guardia, lanciandole un'occhiata ostile.

Kerol si tirò indietro, ma non distolse i suoi occhi da quelli turchesi di Tolecnal. «La mia era un'umile richiesta» si difese. «Un favore.»

«E che mi dai, in cambio di questo favore?» domandò Calud.

Kerol sorrise. Era interessato. Proprio come aveva previsto Larenc.

«Be', considerando la mia posizione,» la giovane donna fece cenno alla propria cella, «non credo di avere molto da offrire. A meno che non consideriamo...» abbassò lo sguardo, e si strinse nelle spalle, unendo le gambe e incrociando i piedi. «Me stessa.» Alzò di nuovo gli occhi, e attirò quelli di Calud con il loro fuoco, come una fiamma avrebbe fatto con un vagabondo nel cuore di una tormenta.

«E tu pensi che io ti creda?» la sfidò Calud. «Se io ti faccio uscire, tanto per fare un giro, tu faresti...» lasciò la frase in sospeso, senza trovare le parole, in imbarazzo, e nel timore di aver frainteso. «Ah! Lascia perdere. Non sono così stupido.»

«Se non ti fidi di me, questo è un altro discorso» disse Kerol, alzando le spalle. «Ma io so che tu sei un uomo di parola.» Terminò lanciandogli un'occhiata, per poi dargli le spalle, e camminare in direzione del proprio letto, oltre il separé, curandosi di quanto ondeggiassero i propri fianchi, e di come i suoi capelli cadessero oltre le spalle e sulla schiena.

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