Capitolo Cinquanta

159 30 236
                                    

Quando Larenc si svegliò, il sole era già alto. La luce che filtrava dalla finestra irradiava la stanza, portando con sé un piacevole calore, molto gradito nel mezzo dei giorni più grigi e freddi di novembre.

Sospirò, sdraiandosi sul lato sinistro, e allungando il braccio destro per raggiungere la sveglia, sul comodino, e voltandone lo schermo luminoso verso di sé.

11:29. Era tardi, ed era venerdì. Sarebbe dovuto essere a lezione.

Si sarebbe dato malato, decise. In effetti, non si sentiva troppo bene, e le coperte non erano abbastanza per trattenerlo dal rabbrividire di freddo.

Quando guardò nella direzione del letto vuoto dall'altro lato della stanza, trovandovi i propri vestiti, i ricordi della notte precedente furono svelti a tornare.

Un'ondata di vergogna risalì dal suo stomaco, invadendo il petto, la mente, e i sensi. Si sentì bruciare, e desiderò che quelle fiamme si trasformassero in oscurità per inghiottirlo, terra per seppellirlo, oblio per dimenticarlo.

Ciò che aveva fatto era spregevole, e non vi era modo di mantenerlo un segreto. Non in quel mondo. Perché l'Imperatore lo sapeva, e presto lo avrebbero potuto sapere tutti. Presto lo avrebbe potuto sapere anche Kerol.

L'avrebbe odiato. Kerol l'avrebbe odiato, per quello che aveva fatto.

E Larenc si odiava perché non riusciva a pentirsi abbastanza.

Ed era come se l'Imperatore fosse rimasto lì tutto il tempo. Lo faceva sentire osservato, vulnerabile, nudo di fronte al mondo intero. Lo faceva sentire in pericolo. E finalmente capì fino in fondo il bisogno di Kerol di sentirsi libera, anche quello di stare sola, di andarsene, e di non tornare mai più.

Si alzò in fretta, e altrettanto rapidamente si vestì. Ma non per andare a lezione. Non per andare in biblioteca. Si vestì per uscire, con una giacca pesante, per coprirsi dal freddo, per coprire la sua vergogna. Per coprire i segni sul suo corpo che solo la notte precedente avevano fatto nascere in lui sensazioni tanto dolci, mentre ora bruciavano come ferite, lo marchiavano come cicatrici, come uno schiavo.

Perché uno schiavo era ciò che era diventato. Uno schiavo era ciò che era sempre stato. Prima delle aspettative di suo padre e della sua famiglia, poi di quel dovere che aveva imposto a se stesso, e quella notte della passione. E ancora, sempre, dell'Imperatore.

Nel deserto di Gejta, il vento soffiava silenzioso, senza cunicoli in cui sibilare

Oops! Questa immagine non segue le nostre linee guida sui contenuti. Per continuare la pubblicazione, provare a rimuoverlo o caricare un altro.

Nel deserto di Gejta, il vento soffiava silenzioso, senza cunicoli in cui sibilare. La sabbia che sollevava si posava sulle strade senza un suono, leggera e invisibile come polvere. Ogni Orsem Guardia era alla sua postazione, immobile, in piedi.

Dietro la schiena, dietro le sbarre di ferro, ogni prigioniero era perso nei propri pensieri, senza riuscire ad abbandonare l'insensata possibilità di poter evadere, escogitando piani fallimentari solo per il gusto di lasciarsi ingannare dall'illusione di una salvezza.

EmberDove le storie prendono vita. Scoprilo ora