Capitolo Quindici

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Solean scese le scale, correndo, seppur consapevole che ogni passo più lontano dai lupi era un altro passo più vicino all'orlo del baratro che era lo sfregio cerebrale.

Li richiamò, uno per uno, finché non gli furono accanto, ma non li guardò nemmeno, e lasciò l'appartamento, senza voltarsi indietro.

Una volta sul pianerottolo, Solean camminò in direzione dell'ascensore, di cui ancora ricordava la posizione, e premette il bottone per chiamarlo. Le porte di vetro nero si aprirono, e Solean sospirò di sollievo quando vide che nessuno ne uscì.

Stupido, si disse poi, erano le tre e mezza del mattino, l'ultima volta che aveva guardato l'orologio. Chi poteva essere sveglio, in tutto il palazzo?

Entrò, e posò la borsa prima di premere il pulsante che lo avrebbe portato al piano terra. Si ritrovò di nuovo a guardarsi nello specchio, ma anche a sospirare di sollievo. Era riuscito a mantenere la promessa fatta a Rozsalia. Aveva lasciato quella casa. Ora doveva solo tornare all'Accademia.

Non sarebbe stato difficile. Avrebbe preso un treno che lo avrebbe portato dritto di fronte all'entrata nord dell'Accademia di Neza. Era fatta, ormai.

Notò poi qualcosa che lo turbava, oltre al riflesso del suo viso vinto dal sonno. I lupi avevano qualcosa di strano. Erano così... veri.

Guardando il pelo di Zelli o di Lanni non si riusciva a notare molto bene, ma quando si voltò verso Telli, il lupo bianco, Solean ebbe un colpo al cuore.

Spalancò gli occhi alla vista di quel rosso, attorno alla sua bocca, e che macchiava anche le zampe. Come se avesse appena catturato una preda, l'avesse uccisa, e divorata.

«Telli» balbettò Solean, facendo cenno al lupo di avvicinarsi a lui e di sedersi. L'animale obbedì, come un cane agli ordini del padrone.

Solean si inginocchiò a guardare Telli nei suoi occhi dorati, e gli accarezzò la testa. Il suo pelo era soffice come la neve, ed era così dannatamente vero. Allora Solean prese ad accarezzarlo sul muso, e sul mento. Quando ritrasse la mano, era macchiata di rosso. Di sangue.

Istintivamente, se la passò sulla giacca scura. Solo piccole tracce rimasero sulle sue dita.

Era sangue. Solean lo capì dal colore, dalla consistenza, dall'odore.

Si alzò in piedi, solo per vedere che dal mento degli altri lupi sgocciolava quel liquido rosso e ferroso, che macchiava il pavimento della cabina dell'ascensore.

«Andatevene» ordinò Solean, agitando la mano destra, e mandando una di quelle gocce a posarsi sullo specchio dell'ascensore.

I quattro lupi lo guardarono, e Felli piegò la testa da un lato, come a pregarlo di poter restare al suo fianco.

Ma non poteva. Solean doveva allontanarli, come un assassino deve disfarsi dell'arma del delitto. «Voi siete illusioni. Voi siete fumo. Voi siete cenere.»

I quattro lupi si dissolsero in polvere di diversi colori. Bianca, mogano, grigia, e nera.

Ma il rosso restò.

La porta dell'ascensore si aprì, e Solean ne uscì, ma anche se le sue gambe si muovevano in direzione della stazione di Wedenak, il giovane era ancora scosso da ciò che aveva fatto, i suoi occhi ancora spalancati, il suo respiro ancora irregolare, le sue dita ancora tremanti.

Le sue capacità erano estremamente ampie. Riusciva a eludere le leggi principali dei Djabel, e questo non faceva che metterlo ancora più a rischio di un ulteriore sfregio cerebrale.

Forse era opera dei Raksos? Dopotutto, era plausibile che lo avessero addestrato a modo loro, prima di mandarlo all'Accademia, se davvero era il loro figlio adottivo. E questo era plausibile, considerando che si era sempre presentato come Raksos Solean, anche prima di perdere i suoi ricordi.

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