Capitolo Quarantotto

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20 novembre 1581

Rozsalia aveva deciso di fermarsi. Forse non aveva valutato nel modo esatto la distanza che la separava da Noomadel. L'immensa distesa erbosa e collinare che precedeva la città degli Yksan l'aveva tratta in inganno. Non c'era una vera e propria strada che la giovane potesse seguire, così aveva creato un sentiero da sé. Ma era sola, era stanca, ed entro il tramonto aveva deciso di fermarsi.

Quella mattina era ripartita di gran lena, ma la sua energia era presto svanita. L'aria fredda e umida delle colline le faceva pesare ogni passo che compiva, mentre i suoi piedi erano rallentati e infreddoliti dall'acqua che si insinuava nei suoi stivali. Doveva aver piovuto da poco, e le pozzanghere che si formavano alla base delle colline erano enormi. Rivoli che scivolavano dai versanti andavano a formare rigagnoli, fiumi, e piccoli stagni, che Rozsalia non sempre poteva aggirare.

Nel pomeriggio, però, era tornato il sole. Rozsalia decise di prendersi una pausa, fosse solo per lasciare asciugare i vestiti, la pesante giacca di pelliccia di yak che la riparava dal freddo ma non dall'umidità.

Si fermò in una piccola valle, riparata dal vento che spirava da est, dal mare, e dove il terreno era abbastanza asciutto. Sistemò una sorta di steccato ricavato dall'intreccio di alcuni bastoni che aveva raccolto nella foresta, che avrebbe usato quella sera per accendere un fuoco, e vi stese la pelliccia. Poi estrasse il sacco a pelo dalla sua borsa, e lo stese lì accanto – non avrebbe potuto aspettare che la sua giacca si asciugasse senza qualche altro riparo dal freddo e dall'umidità. Si tolse gli stivali, e li posò a loro volta sullo steccato, in modo da non tenerli a contatto con il terreno, ancora alquanto umido, anche se non tanto quanto in altri punti della valle.

Si infilò nel sacco a pelo, alla ricerca di un sollievo da quel freddo che si era ormai insinuato nelle sue ossa, e che le aveva appesantite. Si strofinò le braccia, ora coperte solo da una camicia e una giacca leggera, e cercò di tirare verso l'alto le proprie calze, solo leggermente bagnate, e che avrebbero ancora potuto scaldarla, se avessero coperto meglio le sue caviglie.

Sospirò, infine, arrendendosi a quel freddo che la stava divorando. Alzò lo sguardo al sole, pallido e offuscato dalle nuvole. Ma erano nuvole bianche e sottili. Non si sarebbe messo a piovere di nuovo.

Avrebbe riposato solo per qualche momento, mentre il calore calante del sole avrebbe asciugato la sua pelliccia. Rozsalia sospirò, liberandosi dai brividi di freddo che irrigidivano la sua spina dorsale. Si lasciò andare, scivolando in un sogno, un sogno accogliente e caldo, nel quale intravide Solean.

 Si lasciò andare, scivolando in un sogno, un sogno accogliente e caldo, nel quale intravide Solean

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L'abilità di Rozsalia stava nel rendersi conto del passaggio dalla veglia al dormiveglia. Essendo cosciente, in quella seconda fase, era una semplice conseguenza quella di rendersi conto anche di stare sognando. Era come attraversare l'uscio di una porta, una che collegava due dimensioni, due mondi. Il Reale e l'Onirico.

«Solean?» Rozsalia si rivolse alla figura al centro della stanza. Era la stanza di un qualche palazzo, arredato in uno stile antico.

Era un salotto, si rese conto. Il pavimento era in legno scuro, e Rozsalia poteva apprezzarne l'odore. Era dello stesso colore delle sedie imbottite che si trovavano attorno a un tavolo rettangolare, che si trovava dal lato opposto della stanza rispetto a un camino. E, di fronte al camino, nel quale danzavano fiamme rosse e arancioni, dello stesso colore del tappeto, vi erano due poltrone, su una delle quali stava seduto Solean, intento a osservare il fuoco.

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