Capitolo Cinquantotto

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30 settembre 1582

Il pianto sommesso e ininterrotto di Kerol era il sottofondo di un alba tetra, nel deserto di Gejta. Era un ritornello che si ripeteva da più di un mese, ormai, ma la giovane donna non riusciva a evitarlo. Ogni giorno, quando si svegliava, la prima cosa che notava era l'assenza di Larenc.

A quel pensiero erano collegati infiniti altri, come anelli di una catena. Larenc non era al suo fianco perché lei si trovava a Gejta. Si trovava a Gejta perché aveva commesso un crimine. Il crimine che aveva commesso era uccidere Loura. Loura era l'unica amicizia rimasta a Larenc. Larenc doveva odiarla.

Per questo non era venuto a trovarla una sola volta, in tutto quel tempo.

Pensare a Larenc non era più un modo per restare lucida. Non era più un modo per allontanare il dolore. Ne era la causa stessa.

Il ricordo del suo viso era divenuto l'origine di quella stretta allo stomaco, al petto, al cuore che credeva di non avere, e che lui le aveva fatto riscoprire.

Il tempo passato con lui era una parte della sua vita che si era conclusa per sempre. Il giorno più felice della sua vita era già alle sue spalle, e di fronte a lei non vi era altro che sofferenza.

La voce di Larenc infestava la sua mente, e diventava quella dei suoi pensieri, sostituendosi a quella della sua follia. O forse lo era sempre stata.

Vedeva i suoi occhi, ogni volta che chiudeva i propri. E insieme a essi, nell'oscurità, calava su di lei la consapevolezza che Larenc non le avrebbe mai più rivolto lo sguardo. Era finita.

E, ancora, non riusciva ad abbandonare la speranza di potersi spiegare, di potersi giustificare, per quanto inutile potesse essere, di fronte al crimine che aveva commesso. Lo aveva condannato alla solitudine, l'uomo che aveva detto di amare. L'uomo che era sicura di amare.

Quando udì dei passi avvicinarsi alla cella, Kerol non si alzò. Cercò di indovinare a chi appartenessero, sforzandosi di far tacere la voce nel fondo del suo cuore, che si trattasse di lui.

Escluse subito l'Alto Imperatore. Quello se la prendeva troppo comoda. I suoi passi erano lenti e silenziosi.

Ma nemmeno poteva essere Khilents, capì Kerol, con grande sollievo. Le sue ultime parole l'avevano turbata, e tormentata. Ma Chayon andava sempre di fretta. Questi passi erano controllati.

Kerol udì la porta cigolare, e richiudersi. Chiunque fosse, era entrato. Calud lo aveva fatto entrare, senza che nessuno dei due dicesse una parola. E non erano molte le persone che avrebbero potuto dare ordini alla sua guardia senza nemmeno aprire la bocca, e senza che lui avesse da contestare.

Improvvisamente, Kerol capì. Ma, ancora, non si mosse. Rimase rintanata nel suo angolo, sul suo letto, immersa nella sua vergogna, mentre il fiore della speranza sbocciava nel suo petto.

Il suo sguardo era rivolto verso il basso. Solo quando vide i suoi stivali Kerol osò alzare gli occhi. E lo fece lentamente, temendone di severi, e colmi di odio.

Larenc ricambiò il suo sguardo vuoto con un abisso senza fine. Ma era impossibile non notare quella scintilla, negli occhi di lui. Una scintilla pericolosa, e spaventosa. Una speranza.

«Mi dispiace—» farfugliò Kerol, ma Larenc portò una mano avanti, per fermarla.

La giovane abbassò di nuovo lo sguardo, temendo il peggio. Non l'avrebbe mai perdonata. Non voleva nemmeno sentire le sue giustificazioni. La voce nella sua testa le sussurrò le più spregevoli offese, la incolpò dei peggiori crimini, e dei più gravi peccati.

«Non è stata una tua scelta.»

La voce di Larenc era più bassa di quella che rimbombava nella testa di Kerol, e più spenta. Più triste. Era sconsolata.

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