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Il giorno della partenza arrivò e io avevo impacchettato solo metà delle cose che in realtà avrei voluto portarmi al dormitorio. Sapevo che in qualsiasi momento sarei potuto tornare a casa e prendere ciò che mi serviva, ma preferivo non dovermi muovere più di tanto una volta stazionato al college.

Guardai lo zaino che avevo preparato per il week end fuori e sospirai, dovevo sbrigarmi altrimenti saremmo arrivati al campeggio con il buio e non era il caso. Mi alzai dal pavimento, dove mi ero seduto per chiudere uno scatolone, e mi sgranchii le gambe. Le ginocchia scrocchiavano ad ogni movimento e i muscoli si erano indolenziti. Allungai le braccia verso il soffitto e sbadigliai. Avevo lo scotch appiccicato ovunque, sulle cosce, sul gomito, probabilmente anche tra i capelli. Ero un disastro quando si trattava di traslochi, soprattutto perché, una volta chiusi tutti gli scatoloni, mi resi conto di non aver scritto cosa contenevano e che quindi per trovare anche solo un libro avrei dovuto aprirli tutti. In quel momento decisi che Denki sarebbe stato l'addetto all'apertura degli scatoloni perché sapevo che, quando riceveva i pacchi degli ordini online, avvertiva tutti di non aprirli al suo posto perché era la parte che preferiva: tagliare lo scotch e spacchettare il contenuto.

In cucina presi la macchinetta del caffè, perché senza quella non partivo e non parto tutt'ora, e qualche barretta ai cereali per il viaggio, mia madre sarebbe stata fiera della mia scelta di non viaggiare a stomaco vuoto, ma in quel momento si trovava a lavoro e non potevo vantarmi con lei della mia lungimiranza. Afferrai il cellulare, che fino a quel momento avevo lasciato attaccato al caricatore così che mi durasse per tutto il week end, e uscendo mi resi conto che sul tavolo da pranzo c'era un panino incartato. Mia madre si era dimenticata il pranzo a casa. Decisi che potevo fare un salto in ospedale per portarglielo, approfittare per salutarla, vantarmi del fatto che avessi pensato alle barrette di cereali per il viaggio e poi continuare la strada fino a casa di Shinso dove mi aspettava il mio amico per partire.


Mia madre correva da una stanza di un paziente a un'altra e non aveva un minuto di tempo da dedicarmi, così decisi di lasciarle il pranzo sul banco delle infermiere con un biglietto attaccato sopra. Cerca di non lasciare anche la testa da qualche parte. Buon pranzo, mamma! Scrissi velocemente, notando che quella calligrafia simile a un codice indecifrabile l'avrebbe potuta interpretare solo mia madre, e poi mi diressi di corsa verso l'ascensore. Era tardi, tardissimo, e non potevo usare di nuovo la scusa di mia madre, anche se questa volta sarebbe stata la verità. Mi capitava spesso di dare la colpa a mia madre per i ritardi tremendi che puntualmente facevo, ma non potevo usarla come scusa per troppe volte di seguito. Prima o poi Kirishima avrebbe chiesto a mia madre se fosse la verità e mi avrebbe sgamato.

Le porte scorrevoli dell'ascensore, quando lo raggiunsi con tempi record, si aprirono nel momento esatto in cui spinsi il pulsante e mi ritrovai di fronte all'ultima persona al mondo che avrei voluto vedere. Trattenni il respiro e così fece anche lui.

Shoto aveva due occhiaie profonde sotto quel paio di iridi di colori diversi e mi ricordai di un messaggio di Kirishima in cui mi diceva che il suo compagno di stanza non dormiva più in camera, ma che passava le nottate in biblioteca per studiare. Mi resi conto di quanto potesse essere vero ciò che mi aveva detto e che non aveva affatto esagerato come invece avevo creduto.

"Il biondino del caffè" si riprese prima di me da quel momento di stasi che ci aveva colpito non appena i nostri sguardi si erano incrociati.

"Il ragazzo che non passa gli esami" non so perché me ne uscii con quella frase, non era di certo una battuta divertente e nemmeno un insulto ben studiato. Dissi solo ciò che sapevo che in quel momento gli avrebbe fatto più male. Avevo collegato i puntini, l'esame andato male, il fatto che era sparito dopo quel giorno e le occhiaie che rappresentavano le nottate passate sui libri, e avevo deciso di unirli con una singola frase crudele. Gli ero passato sopra come uno schiacciasassi e lo potevo notare dallo sguardo con cui mi stava inchiodando al muro alle mie spalle. Ora, se potessi, tornerei indietro e mi tapperei la bocca da solo.

Vidi passare nei suoi occhi prima l'incredulità e poi la rabbia. Era evidente che non si aspettava che io sapessi dell'esame e che avrei usato quella carta contro di lui. Forse non si aspettava una tale crudeltà da parte mia. Kirishima avrebbe proprio fatto bene ad avvertirlo sul mio carattere e sul non doversi mai inimicare uno come me, perché sono uno di quelli che i torti se li lega al dito e se li porta fin dentro la tomba.

Cercai di riparare al danno appena fatto. Non mi dispiaceva per come si stesse sentendo, ma avevo paura che potesse prendersela con Kirishima per avermi detto che non aveva passato l'esame. Spostai per un attimo l'attenzione, distolsi lo sguardo dai suoi occhi lucidi e mi permisi di riprendere aria osservando il pavimento tirato a lucido.

"Se hai bisogno di staccare la spina, puoi unirti a noi. Stiamo andando al campeggio sul lago" non lo volevo, il mio intento non era quello di portarmelo davvero in vacanza, speravo che lui prendesse quella proposta come una mia iniziativa di far pace e che così non si arrabbiasse con Kirishima. Era un atto completamente egoista perché sapevo che se il rosso fosse venuto a sapere ciò che avevo detto al suo compagno di stanza, probabilmente, non mi avrebbe rivolto la parola per una settimana. Una settimana, non di più perché non era capace di tenermi il muso per più di sette giorni di fila. Aveva un punto debole: era solo capace di perdonare e mai di tenere il punto.

"Non voglio passare nemmeno un minuto di più nello stesso posto con te. Vai ad affogare nel lago con i tuoi amichetti e tieniti queste finte scuse per qualcuno che possa cascarci"

Lo aveva capito, aveva compreso il mio piano e aveva ribaltato ancora una volta le carte in tavola. Gli diedi le spalle e me ne andai. Se mai avesse detto qualcosa a Kirishima, io avrei raccontato la mia versione dei fatti e avrei fatto passare lui per il cattivo della situazione. In fondo, io lo avevo invitato a passare il week end con noi e lui aveva rifiutato, trattandomi oltretutto di merda.


Il viaggio in macchina con Shinso fu veloce, proprio come aveva sconsigliato Kirishima. Per la maggior parte del tempo rimanemmo in silenzio, poi Shinso si girò verso di me con espressione leggermente interrogativa. Vidi i suoi capelli color lavanda scuotersi davanti al finestrino del passeggero e attesi che aprisse bocca. I viaggi con Shinso erano quelli che preferivo, perché di solito rimaneva in silenzio, sembrava gli piacesse ascoltare il rumore delle ruote sull'asfalto, proprio come a me, e raramente proferiva parole o provava a fare qualche discorso. Ma quel pomeriggio, invece, sembrava intenzionato a riempire quel silenzio paradisiaco con qualche frase di troppo. Avevo capito che voleva rompere il silenzio, forse con una stupidaggine o forse con qualcosa di serio.

"Hai fatto tardi" con una stupidaggine, pensai lanciandogli un'occhiata in tralice. In realtà non poteva essere arrabbiato per il mio ritardo perché, quando ero arrivato sotto casa sua, lui non era pronto per partire, doveva ancora finire di preparare lo zaino. Lo avevo aiutato a scegliere accuratamente le cose essenziali per passare una notte al campeggio e poi avevo lanciato nel portabagagli il suo zaino.

"Mia madre aveva dimenticato il pranzo a casa e gliel'ho dovuto portare" mi resi conto troppo tardi di aver usato di nuovo mia madre come scusa e che non avrei dovuto. Scossi la testa e cercai di rimediare, distogliendo l'attenzione del viola da mia madre.

"Ho incontrato lo stronzo del compagno di stanza di Kirishima e ho perso tempo" conclusi, stringendo con forza il volante fino a far sbiancare le nocche. La strada correva sotto le ruote della mia macchina e ogni tanto il suono della freccia riempiva quel silenzio che si stava impadronendo del cubicolo della vettura.

"Shoto" mi ricordò Shinso, come se non sapessi già il nome di quell'infame. Lo ricordavo benissimo, ma non volevo nominarlo. Come si fa con i demoni, non si nominano mai tre volte perché altrimenti appaiono.

"Lo so come si chiama"

"Allora chiamalo con il suo nome" mi ammonì e io lo squadrai. Non ricordavo nemmeno si fossero conosciuti, figuriamoci se potevo immaginare che avrebbe preso le sue difese. Forse il verbo difendere era esagerato, in fondo aveva semplicemente detto di usare il suo nome per riferirmi a lui.

"Mi sta sulle palle, comunque ho fatto tardi perché l'ho incontrato e ci ho discusso" spiegai, anche se non era mia intenzione approfondire l'argomento.

"Come se fosse una novità"

Il resto del viaggio proseguì in silenzio, solo ogni tanto lo sentii sbuffare. Capitava che disapprovasse il mio comportamento scorbutico, ma non avevo alcuna intenzione di cambiare. 

L'imperfezione della necessitàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora