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Non mi sono mai ritenuto altruista, né tantomeno uno di quei ragazzi tutto sorrisi e favori. Su di me si poteva dire di tutto, che fossi arrogante, senza pudore o addirittura uno stronzo patentato. Non ho mai detto il contrario. Mai. Nemmeno ora che c'è chi mi guarda come se fossi un benefattore sceso dal cielo.

Ammetto che qualcosa è cambiato, ma non la mia indole di rompipalle menefreghista. Non mi importava della vita delle altre persone e non me ne importa nemmeno ora. Solo di una persona mi interessava più della mia stessa vita, mia madre, una donna affabile, altruista e generosa. Insomma, esattamente l'opposto di me. Molti si chiedevano da dove fossi uscito, come potesse essere possibile che una donna così dolce avesse messo al mondo un ragazzo così crudele nei confronti del genere umano.

A mia discolpa: il genere umano ha sempre fatto schifo. Nessuno è mai riuscito a convincermi con gli sproloqui sulle persone che fanno beneficienza o con discorsi riguardanti il fatto di non fare di tutta l'erba un fascio. Non dico che tutti gli esseri umani siano da prendere e gettare nel cassonetto dell'indifferenziato, ma una buona parte sì e, per evitare di lasciarne in giro qualcuno, sarebbe meglio eliminarli tutti, me compreso, non mi escludo. Anzi, forse dovrei essere il primo a dover essere eliminato.

Ma mia madre, lei si salvava dal mio odio nei confronti delle persone. Non ero solito farle sapere quanto tenessi a lei o quanto stimassi la sua perseveranza nel lavoro o nel difendere il genere umano, quando a cena me ne uscivo con uno dei miei discorsi lunghi una quaresima su quanto le persone avessero rovinato il pianeta.

Lei era quel genere di donna che, nonostante il lavoro logorante che faceva, tornava a casa e raccontava aneddoti divertenti per tenere l'umore alto a tavola o in salone. Da infermiera conosceva molto bene gli esseri umani e anche le loro pecche, ma sembrava non vederle o volerle nascondere, come quando smacchiava la tovaglia dal sugo che inevitabilmente quello sbadato di mio padre aveva fatto cadere.

Il nome che mi hanno dato quando sono nato non credo abbia un significato particolare, anzi credo sia per puro caso che sul mio certificato di nascita ci sia proprio quel nome: Katsuki Bakugou. Qualcuno mi disse che il nome dovrebbe essere l'icona di una persona, ma secondo me più che il nome lo è il carattere e il mio, come già detto, era ed è tutt'ora un carattere di merda. Non a caso mi sono ritrovato a discutere con un perfetto sconosciuto proprio sul posto di lavoro di mia madre, incurante del fatto che ci trovassimo in ospedale e che era potenzialmente un parente di qualche paziente.

Me lo ricordo come se fosse successo appena pochi minuti fa, non ho dimenticato nemmeno i colori del tramonto che penetravano dalle finestre lungo il corridoio. La puzza dell'ospedale di quel pomeriggio ancora disturba i miei sogni e lo sguardo furioso di quella persona non l'ho rimosso. Non potrei rimuoverlo, non voglio farlo perché dopo quell'occhiata ho rivalutato tutta la mia vita. Come era possibile che mi fossi ritrovato a litigare con un perfetto sconosciuto in un ambito così particolare?

Quel pomeriggio andai in ospedale per portare a mia madre le chiavi di casa che si era dimenticata nel cruscotto della macchina. Dividevo l'auto con lei o con mio padre, in base ai loro impegni, ma con la sbadataggine di mia madre capitava spesso che poi dovessi passare in ospedale a portarle o il portafoglio, o il cellulare o, come in quel caso, le chiavi di casa.

Odiavo quel posto allo stesso modo in cui un felino odia uscire dal proprio territorio o un cane odia esser disturbato mentre affonda il muso nella propria ciotola. Ogni volta che ci mettevo piede mi sentivo svuotare, come se mi fossi dovuto sentire in colpa perché entravo da persona sana, non malata, mentre tutti gli altri ci mettevano piede per combattere per rimanere in vita. Mi sentivo svuotato perché, appunto, avrei dovuto sentirmi triste per loro, ma la maggior parte delle volte guardavo i pazienti con disinvoltura e distacco. Non mi importava cosa li avesse inchiodati a un letto d'ospedale o perché dovessero sottoporsi a terapie continue. Ero dell'idea che chiunque si trovasse lì era solo più sfigato di me che ancora non avevo contratto alcuna malattia mortale.

L'imperfezione della necessitàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora