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Lanciai lo zaino contro l'anta di legno alle mie spalle, mi piegai, caddi sulle ginocchia e mi portai le mani tra i capelli, che tirai finché il dolore alla testa non divenne insopportabile. Urlai a pieni polmoni e lasciai scorrere le lacrime fino a bagnarmi i jeans. Mi chiusi su me stesso, premetti la fronte contro le ginocchia, assumendo quasi una posizione fetale. Il dolore era interno, partiva dal centro del petto e si diramava lungo tutti i muscoli, afferrava ogni organo e lo stringeva, avvolgendoli nelle sue spire. Il dolore aveva preso una forma dentro di me e mi invadeva, riempiendomi del suo nocivo liquido nero. Lo sentivo, percepivo il suo espandersi e occuparmi le parti vitali, come i polmoni, il cuore, addirittura l'intestino e lo stomaco. Era come se la bile avesse preso possesso di ogni spazio disponibile e avesse iniziato a corrodermi dall'interno. Il dolore era la bile, ma non potevo vomitarlo via, dovevo lasciarmi impregnare da quel liquido corrosivo e aspettare che mi mangiasse vivo.

Era un dolore lancinante, che riusciva a togliermi il respiro e la cognizione del tempo che scorreva. Erano pochi minuti che mi trovavo lì, riverso a terra, o erano passate delle ore? Fuori era giorno o notte?

Mi trascinai fino al bordo del letto e mi ci infilai, cercando di ignorare il mondo esterno. Sembrava di vivere un déjà-vu, non era la prima volta che cercavo di sparire dal mondo e probabilmente non sarebbe nemmeno stata l'ultima, ma la sensazione di logoramento, seppur già vissuta, non era mai sopportabile. Non ci si abitua alla voglia di sparire, di venir risucchiato dal buio e non dover più pensare a nulla, sembra una liberazione, credi di poter risolvere ogni problema sparendo, ma sai che non puoi e allora speri che sia il mondo stesso a farti sparire. Non ci si abitua, perché non si sparisce mai a causa del mondo e sono rare le volte che si ha il coraggio di fare ciò che il mondo non fa. Volevo sparire, ma mi mancava la forza anche di stringere il cuscino. Se fosse stata una cosa possibile, avrei pregato che il letto mi inglobasse e mi rendesse parte di lui, come un qualsiasi altro oggetto materiale che la gente vede, ma non nota sul serio.

Sentii bussare ripetutamente alla porta, sentii la sua voce rotta dai singhiozzi pregarmi di aprirgli, ma lo continuai ad ignorare. Continuò per minuti, che divennero ore e non si arrese, si stava battendo per entrambi, mentre io avevo già deposto le armi e mi ero consegnato ai nemici chiedendo di venir ucciso perché stanco della guerra.

Ogni tanto, quando i polmoni riuscivano a raccogliere un po' più di aria al loro interno, trovavo la forza di muovere i muscoli, di alzarmi e mi avvicinavo alla porta. Seguivo il rumore della sua voce macchiata dai singhiozzi, rovinata e distorta dalla sofferenza. La raggiungevo, ma non permettevo alla mia debolezza, alla mia innegabile necessità di vederlo in faccia e stringerlo contro il mio petto, di portarmi ad afferrare quella maniglia. Nei momenti di intensa fragilità, vacillavo, mi tendevo verso la maniglia di ottone, o forse finto metallo, ma poi mi obbligavo a fermarmi e poggiavo il palmo sull'anta, proprio lì dove sentivo la sua chiusa a pugno accanirsi per richiamare la mia attenzione. Doveva avere una forza di volontà incredibile per non essersi già arreso, per non essersi fatto conquistare dalla stanchezza e dall'esasperazione. Che quella forza venisse data dall'amore era ironico, in quanto quella stessa variabile, invece, teneva me chiuso in stanza.

Quando poi lo sentivo calmarsi, perché sì, arrivavano anche dei momenti di silenzi, fatti di sospiri e delusione, la mia perché egoisticamente mi illudevo che, se avesse bussato un'altra volta ancora gli avrei aperto e la sua perché consapevole che non mi avrebbe visto anche se avesse continuato ad insistere per il resto della notte, poggiavo la schiena contro quella stessa porta e scendevo giù fino a sedermi sul pavimento. Sentivo quell'anta di legno sorreggermi, ma allo stesso tempo venir usata come appoggio anche dall'altro lato, come se Shoto, proprio come me, si stesse poggiando con la schiena contro la porta. Chissà se, quando io mi trovavo seduto a terra, con la nuca abbandonata indietro contro la porta, anche lui si trovava nella stessa identica posizione dal lato del corridoio. Sarebbe stato comprensibile, in fondo i nostri cuori ancora comunicavano.

L'imperfezione della necessitàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora