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Passarono un paio di settimane e ancora non avevo deciso in che modo sopravvivere alla vacanza in presenza del bicolore. Mi bastava incontrarlo per i corridoi che mi si contraevano i muscoli delle braccia. Ero sempre pronto a tirargli un pugno. Ma non potevo perché avevo il sospetto che stesse ancora uscendo con Shinso, cosa di cui però non ero sicuro perché non li avevo più visti insieme, né tanto meno scambiarsi alcun tipo di gesto affettuoso. Forse ero riuscito a rompere il loro legame, forse li avevo fatti allontanare. La speranza di non doverlo sopportare durante la settimana bianca era sicuramente ancora viva in me.

Per quanto riguardava i sentimenti per Kirishima, mi resi conto che, una volta appurato che non sarei mai stato sostituito dal bicolore, non provavo più nulla, né gelosia né alcun tipo di sentimento più profondo di un'amicizia. Era stata solo paura, paura di perdere il mio migliore amico e di venir rimpiazzato da quella specie di chupa chups fragola e panna.

Mi risvegliai dai miei pensieri quando sentii il cellulare vibrare nella tasca. Sapevo già chi fosse, Denki. Ormai mi chiamava ogni giorno appena finivano le lezioni mattutine e iniziava la pausa pranzo. Dovevo andargli incontro per non fargli fare la strada verso la mensa da solo. La situazione era migliorata, lui si sentiva più tranquillo, addirittura non mi chiedeva più di accompagnarlo fuori se doveva andare da qualche amico di notte, ma si erano sparse delle voci che affermavano un ritorno alquanto violento della banda dei fuoricampo e lui, come era ovvio che fosse, era di nuovo caduto vittima della sua paura.

Mi affrettai per raggiungerlo e lo trovai ancora dentro il padiglione dove aveva seguito l'ultima lezione. Si guardava intorno, chiunque avrebbe potuto pensare si fosse perso, ma io sapevo che era terrore quello che lo portava a guardarsi intorno come se fosse alla ricerca di una via di fuga.

Mi avvicinai a lui e lo scossi prendendolo per la spalla. Vidi chiaramente il momento in cui si rese conto della mia presenza, le pupille si allargarono come quelle di un bambino davanti a un ovetto di cioccolato, e la sua espressione, da che era in tensione come ogni altro muscolo del suo corpo, si rilassò.

"Andiamo a mangiare?" chiesi con tono basso e tranquillo. Dovevo comportarmi come se tutto fosse normale, non dovevo trattarlo come un paziente di un ospedale, non dovevo esagerare con la delicatezza e la gentilezza, altrimenti si sarebbe reso conto di quanto mi preoccupasse la sua situazione. Non volevo assolutamente che credesse di essere un peso, perché non era affatto un peso, era un amico e come tale mi faceva solo preoccupare.

Ne avevo anche parlato al telefono con mia madre una sera. Avevo aspettato che Denki fosse uscito per andare da Kirishima a passare la serata a giocare ai videogame o a vedere qualche serie tv scadente, piena di risate di sottofondo e senza una vera a propria trama di base. Avevo digitato il numero di casa senza nemmeno rendermene conto e, appena avevo sentito la voce di mia madre provenire dal telefono, mi ero reso conto che lei era sicuramente la persona più adatta a cui chiedere consiglio. Le aveva fatto presente di come aveva iniziato a comportarsi Denki e di quanto fosse diventato poco autosufficiente. Addirittura, la notte lo vedevo tremare sotto le coperte e in quelle occasioni mi veniva l'impulso di alzarmi e andarlo a stringere per calmarlo, cosa che, però, non facevo per evitare di abituarlo, come invece era accaduto con le mie corse per accompagnarlo da una parte all'altra del campus. Non potevo vivere con la paura che quel segno all'interno della mente del mio compagno di stanza potesse diventare indelebile come la cicatrice sul viso di Shoto. Non volevo che il resto dei suoi giorni Denki lo passasse a non fidarsi degli esseri umani. Così, avevo esposto i miei timori a mia madre, la quale, senza troppi giri di parole, mi aveva risposto che sarebbe sempre rimasto un segno interno in Denki, ma che avrebbe comunque ripreso a vivere come aveva sempre fatto, che sarebbe tornato il ragazzo spensierato e solare di sempre e che aveva solo bisogno di tempo e di amici che lo comprendessero.

E così, dopo quella telefonata, non mi ero più opposto alle fisime del biondo. Se chiedeva di esser accompagnato in mensa, io lo prelevavo dal padiglione dove aveva seguito l'ultima lezione e ce lo accompagnavo. Se voleva andare a trovare un amico di sera, ero disposto addirittura a uscire in pigiama. Se erano degli amici comprensivi quelli di cui necessitava per rimettersi in piedi, io sarei stato il miglior amico che avrebbe mai potuto desiderare. E forse proprio questo mio volerlo vedere di nuovo allegro, mi portò a una frustrazione tale da iniziare a prendere delle pessime decisioni. Decisioni che avrebbero potuto mettermi in guai seri, addirittura in pericolo di vita.


Qualche sera più tardi, mentre studiavo seduto alla scrivania sotto la finestra, mi resi conto di aver scritto frasi sconclusionate mentre, ancora una volta, la mia mente si era allontanata dai libri e dagli appunti per andarsi a concentrare sulla vacanza imminente. Mancavano meno di due settimane e ancora non sapevo se avrei dovuto dividere la casetta di legno con uno stronzo o se quel bicolore fosse ufficialmente uscito dalla mia vita.

Accartocciai il foglio scritto e lo lanciai nel secchietto ai piedi della scrivania. Rimbalzò sul resto dell'immondizia e mi colpì il piede, così mi dovetti piegare per raccoglierlo, movimento che non giovava alla mia schiena che era rimasta troppo tempo poggiata contro lo schienale rigido della sedia, e notai che era arrivato il momento di buttare la busta. Quando studiavo producevo una quantità industriale di fogli e foglietti con schemi e appunti che poi mi rendevo conto fossero inutili e che quindi buttavo.

Lanciai un'occhiata a Denki che studiava seduto a gambe incrociate sul pavimento. Si era circondato di libri aperti e fascicoli stampati, teneva una matita in bocca, una penna incastrata sopra l'orecchio e i post it appiccicati ovunque. Non mi chiesi nemmeno come fosse arrivato al punto di ritrovarsi un post it attaccato alla fronte, era Denki e con lui tutto era possibile, era una cosa che avevo imparato ai tempi del liceo nel periodo in cui ci stavamo preparando per la maturità. Sospirai, sia per quei ricordi lontani che un po' di malinconia me la lasciavano sempre, sia perché non avevo proprio voglia di uscire al freddo per svuotare il secchietto, ma decisi, comunque, di non provare nemmeno a chiedergli di scendere lui a buttare l'immondizia, sapevo che non sarebbe stato capace di andare oltre la porta a vetri, soprattutto perché il sole ormai era calato da un po'.

Arrivai in strada e lanciai la busta nel secchione a bordo del marciapiede. Stavo per rientrare quando il lampione sopra di me sfarfallò e mi costrinse ad alzare la testa. Mi sentii sopraffatto dalla consapevolezza che quello era stato il luogo in cui la banda aveva picchiato Denki, forse quel lampione aveva illuminato a tratti la figura rannicchiata a terra del mio amico, forse uno dei ragazzi della banda si era appoggiato con la schiena a quel palo mentre si godeva lo spettacolo. Passai lo sguardo sulle macchine parcheggiate, quale di quelle avevano provato a rubare non si sapeva e probabilmente non si sarebbe mai saputo perché nemmeno Denki lo ricordava, tutto ciò che gli era rimasto di quella notte era la paura e la sensazione delle mazze da baseball contro le costole e le gambe.

Mi sentii pervadere dalla rabbia, una rabbia senza alcun tipo di controllo. Strinsi i pugni e riempii i polmoni con quell'aria umida della notte. Faceva freddo, il mio fiato si disperdeva con delle nuvolette bianche e i muscoli erano rigidi sotto il tessuto pesante della tuta. Decisi che non potevo restare fermo, starmene lì a ricordare ciò che io in prima persona non avevo mai vissuto, ma che mi faceva incazzare fin troppo. Mi riempii i polmoni di aria una seconda volta e alzai il viso verso il cielo stellato.

"USCITE ALLO SCOPERTO, TESTE DI CAZZO. SONO SOLO E INDIFESO, PROPRIO COME PIACE A VOI. VENITEMI AD ATTACCARE, IN FONDO VOI ATTACCATE SOLO PERSONE SOLE PERCHÉ SIETE DEI VIGLIACCHI" urlai con tutta la voce che possedevo nel mio corpo sopraffatto dalla furia.

Aspettai, guardandomi intorno, proprio come Denki quando attendeva il mio arrivo al padiglione per andare alla mensa. Non tremavo, non avevo paura, sentivo i muscoli fremere, ogni fibra del mio corpo era pronta a combattere, a colpire più persone possibili per vendicare Denki. Anche se lui, probabilmente, se lo avesse saputo, avrebbe fatto di tutto per fermarmi.

Dopo qualche minuto di attesa, riprovai ad attirare la loro attenzione.

"AVETE PAURA? AVETE DECISO DI PRENDERE DI MIRA I RAGAZZINI DEL LICEO O FORSE DELLE MEDIE? ATTENTI CHE SONO TUTTI PIÙ INTELLIGENTI DI VOI, POTREBBERO BATTERVI IN FURBIZIA" mi bruciava la gola per quanto avevo alzato la voce. Sentii le ultime parole grattare lungo la trachea e ferirmi quasi fisicamente, ma funzionò, qualcuno arrivò, ma non chi mi aspettavo arrivasse. 

L'imperfezione della necessitàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora