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"Ah sei qui, ti ho cercato nella tua stanza"

Mi voltai e mi resi conto che era stata mia madre a parlare. In quel momento ciò che realizzai mi gelò il sangue nelle vene. Lanciai un'occhiata alla cartella che mia madre teneva ancora stretta al petto e mi resi conto che era la stessa che poco prima aveva preso dallo scaffale dietro di me. Era la cartella del paziente di cui si occupava, quel caso un po' delicato di cui non voleva parlarmi. Il paziente gravemente malato era Shoto.

Mi girai di scatto verso il bicolore e lo guardai con occhi sgranati. Mi aveva mentito, aveva detto che era la madre a stare male. Aveva lasciato correre il discorso dicendo che si recava in ospedale per farle compagnia e non lasciarla sola, ma non era affatto così, mi aveva nascosto la verità, ma perché?

Mi alzai e gli afferrai il polso, c'era il bancone a separarci ma, se ce ne fosse stato bisogno, lo avrei superato saltandolo.

"Mi hai mentito, sei malato, molto malato. Perché non mi hai detto la verità?" strinsi la mano intorno al suo polso e sentii la rigidità delle sue ossa, anche se sembravano quasi possibili da sgretolare semplicemente chiudendole con più forza nella presa. Era sorprendentemente magro, ma non era ciò che mi preoccupava, il suo viso pallido e i suoi occhi lucidi erano indice di malessere più della magrezza per me che ero abituato a vedere quella sua ossatura sporgente e quel suo estremo deperimento come se fosse normale.

Sentii la mano di mia madre poggiarsi sulla mia spalla e chiedermi silenziosamente, con una leggera stretta, di farmi indietro e di lasciare andare il suo paziente. Non lo feci, la ignorai e lei fu obbligata ad aprir bocca.

"Katsuki, vai in macchina, aspettami lì" continuai ad ignorarla perché ancora una volta quelle iridi spaiate stavano avendo la meglio su di me. Non potevo distrarmi, non potevo voltarmi o chiudere gli occhi, non sapevo se tornando a guardare avanti le avrei più viste o se le avrei perse per sempre. Che aveva? Che mi aveva nascosto con tanta nonchalance?

"Katsuki, lascia andare Todoroki e vai subito in macchina"

"Non posso" sussurrai, ma lei non tolse la sua mano dalla mia spalla. La sentii inspirare profondamente, potevo immaginare il suo sguardo pieno di disapprovazione puntarmi la schiena. Potevo comprendere la sua rabbia, in fondo, ciò che vedeva lei era suo figlio che se la stava prendendo con un suo paziente, qualcuno che lei avrebbe dovuto salvaguardare.

"Bakugou" la voce del bicolore mi penetrò attraverso gli spazi intercostali e mi perforò il cuore "Mi hai sempre odiato, torna a farlo, ti conviene" fu brutalmente sincero, potevo capirlo dal modo in cui respirava, da come stringeva la mascella e dal suo sguardo privo di ogni tipo di emozione. Sapeva che odiandolo mi sarei risparmiato anche tanta sofferenza. Ma come poteva chiedere a una persona di odiarlo? Era inconcepibile per me il desiderio di venir odiato e in qualche modo io mi ero ritrovato a non voler provare quel tipo di sentimento dispregiativo nei suoi confronti. Lo avevo odiato per molto tempo, ma era stata una mia scelta, ora che era lui a chiedermelo era tutt'altra storia, non volevo accettarlo, non volevo che mi venisse detto come comportarmi nei confronti di qualcuno, anche se quel qualcuno era Shoto Todoroki, il ragazzo che più avevo odiato in vita mia.

Lo strattonai verso di me con la mano che ancora gli stringeva il polso esile, il bancone che ci separava gli impedì di cadermi addosso e io fermai il suo movimento premendo la fronte contro la sua. Non fu delicato come gesto, ma me ne fregai altamente, in quel momento ero furioso. Avrei voluto che tutta la mia rabbia gli venisse trasmessa non solo dalle parole, ma anche dai miei gesti, dal mio sguardo, dal mio respiro che si infrangeva contro le sue guance leggermente rosate. Volevo che percepisse le stesse vibrazioni che stavano pervadendo le mie ossa facendole fremere. Era la rabbia che guidava quelle vibrazioni ed ero convinto che, essendo stato lui a far crescere una tale furia in me, era anche suo dovere appropriarsi di quelle sensazioni fastidiose, quasi dolorose, che stavano conquistando il mio corpo.

L'imperfezione della necessitàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora