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Rimasi fuori da quella porta per oltre tre ore, contai ogni oggetto possibile da contare: le mattonelle del pavimento, le piccole crepe dell'intonaco, i pezzetti di colla rimasti dai vecchi adesivi colorati che indicavano i percorsi per raggiungere i vari reparti. Mi concentrai su più cose possibili per non perdere la testa, per non iniziare a immaginarmi gli scenari più brutti che la mia mente poteva creare, come ad esempio un funerale con la bara aperta e degli occhi impossibili da vedere oltre le palpebre chiuse, oppure un Shinso urlante e disperato che mi colpisce perché gli ho tenuto nascosta la malattia del suo fidanzato, la stanza di Kirishima senza più il letto con le lenzuola con gli orsi polari rappresentati, perché sì, ricordavo benissimo le lenzuola del bicolore perché, quando avevo chiesto a Kirishima se la scelta aveva un senso, lui mi aveva risposto che Shoto odiava il fuoco e ciò che attribuiva alle fiamme e, secondo quel ragazzo, gli orsi polari erano una delle rappresentazioni più distaccate dal calore possibili.

Il mio continuo conteggiare mentalmente venne interrotto da dei piedi che invasero la mia visuale, si muovevano rapidamente sulle mattonelle che stavo provando a contare per la centesima volta, alzai lo sguardo sia per dare un volto a chiunque avesse osato interrompermi sia per assicurarmi che non fosse Natsuo. Dal cappuccio nero si intravedevano delle ciocche uscire e lo sguardo furioso di un colore che avrei potuto paragonare solo all'occhio sinistro di Shoto. Mi staccai dal muro e provai a seguirlo, ma non feci in tempo che quello spalancò la porta della stanza del bicolore e vi si chiuse all'interno. Rimasi interdetto, tutti riuscivano a varcare quell'entrata, ma non io. Io rimanevo sempre fuori, escluso da qualsiasi cosa stesse succedendo lì dentro.

Era assurdo come una semplice anta di plastica, nemmeno di un legno buono e massiccio, ma materiale da due soldi, riuscisse a tagliarmi fuori dalla vita del bicolore. Sembrava che tutti avessero più diritto di me su qualsiasi decisione stessero prendendo per aiutare Shoto. Io sentivo di meritarmi un po' più di rispetto da parte di tutti loro, sentivo il dovere di stare accanto a lui, di sostenerlo. Sentivo di avere il diritto di venir incluso. Volevo essere d'aiuto, ma soprattutto non volevo continuare ad aspettare in corridoio che qualcuno mi raggiungesse per informarmi che era tutto finito, che non avevano potuto salvarlo, quando io non avevo nemmeno potuto muovere un dito in quell'ospedale per fare in modo di salvargli la vita. Mi decisi a prendere in mano la situazione, non avrei lasciato la vita del bicolore nelle mani di quelle persone, non avrei permesso che mi tagliassero fuori.

Piantonai la porta, rimasi in piedi davanti l'anta di plastica rigida con le braccia incrociate davanti al petto e uno sguardo omicida. Quello sguardo era il risultato di anni di liceo di duro lavoro in cui avevo fatto in modo di intimorire i professori ed evitare che mi chiamassero per l'interrogazione. Chiunque fosse uscito, se la sarebbe vista con me. Sentii delle urla provenire dall'interno della stanza, allungai la mano verso la maniglia, ma mi mancò il coraggio, avevo visto circa un'ora prima Enji Todoroki tornare lì dentro, non lo avrei mai voluto ammettere ma ero terrorizzato da quell'uomo. Mi sentivo un fallito, avevo osato pensare di meritare di stare accanto a Shoto, ma nel momento in cui avrei dovuto semplicemente abbassare una maniglia avevo perso tutta quella spavalderia che avevo mostrato a un corridoio vuoto e avevo accettato di rimanere chiuso fuori, di lasciare nelle mani di tutti gli altri la vita di Shoto. Che razza di amico ero? Giusto, pensai, io non ero un suo amico, io ero il ragazzo che odiava e lui lo stronzo della macchinetta. Io non avevo mai meritato di stargli accanto, né tanto meno avrei mai ottenuto il diritto di prendere decisioni che riguardavano la sua salute e il suo futuro. Ritrassi la mano, la chiusi a pugno per la frustrazione, strizzai gli occhi fino a veder apparire i cerchietti bianchi sul retro delle palpebre e poi tornai lucido. Era vero, avevo paura di Enji Todoroki e ne avevo tutti i diritti, sapevo cosa aveva fatto a suo figlio quando era stato solo un bambino indifeso, ma dovevo ricordarmi che in quel posto non avrebbe mai potuto farmi del male.

L'imperfezione della necessitàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora