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Ritornare al campus fu come immergersi di nuovo in una vasca d'acqua gelata, prima mi trovavo nel tepore di casa mia e subito dopo tremavo per il freddo. L'unico fattore positivo era la presenza ingombrante di Denki. Continuava a parlarmi, raccontandomi tutto ciò che aveva fatto durante le vacanze di Pasqua, non mi dava fastidio, anzi ero felice che si fosse divertito tanto, ma sentivo un pochino la mancanza di quella vacanza alla villa con i miei amici. Ogni tanto gli lanciavo un foglio appallottolato per zittirlo, ma sicuramente la sua risata era una benedizione in quei giorni.

Sapevo che dopo una settimana sarebbe tornato anche Shoto, così approfittai di quei giorni precedenti al suo rientro per stare un po' tranquillo in stanza di Kirishima, accennando ogni tanto al fatto che stavo rivalutando l'idea di contattare Shinso. Rimanevo dell'idea che dovesse sapere delle condizioni del suo ragazzo, soprattutto per la gravità della malattia incontro a cui stava andando il bicolore, o che probabilmente combatteva già da tempo, ma non avevo il coraggio di rompere la promessa di non dire niente che avevo fatto a Shoto.

Il settimo giorno, mi tenni alla larga da Kirishima e dalla sua stanza che presto sarebbe stata occupata di nuovo dal bicolore. Non volevo imbattermi in quel paio di occhi spaiati che mi avrebbero ricordato quanta sofferenza avevano patito nel giro di soli ventitré anni. Avevo il timore di cedere di fronte alla paura di perderlo e quindi di ritrovarmi a confessare tutto a Shinso, convinto che in qualche modo lui potesse risolvere il problema trovando una soluzione. Inutile dire che nemmeno Shinso avrebbe potuto aiutare Shoto.

Così escogitai un modo per evitare di incontrare il bicolore nel corridoio del dormitorio mentre riportava le sue cose nella stanza che condivideva con Kirishima: mi chiusi in aula studio con tutto il necessario per poterci rimanere anche per dodici ore filate. Ma fu proprio lui a venirmi a cercare in aula studio. Leggevo tranquillamente il programma dell'esame che avrei dovuto sostenere quel mese, quando qualcuno mi picchiettò il dito sulla spalla. Alzai il viso e mi girai, convinto che avrei trovato Denki con un panino in mano, veniva sempre a richiamarmi con un panino, come se fosse l'unico modo per attirare la mia attenzione. Forse aveva ragione, il cibo aveva potere, soprattutto su di me.

Incontrai gli occhi eterocromi da cui volevo a tutti i costi sfuggire, l'azzurro era leggermente cerchiato di rosso, come se gli fosse entrato del sapone all'interno e lo avesse strofinato e il grigio sembrava una nuvola pronta a bagnare la terra con una tempesta senza pietà. Immaginai che per lui fosse stato molto più facile tornare al campus, soprattutto perché aveva potuto cambiare completamente il regime alimentare che gli era stato imposto in ospedale e anche gli orari fin troppo costrittivi. Ma ero convinto che ciò che meno gli sarebbe mancato era il modo in cui i medici e gli infermieri lo guardavano, come se in lui non vedessero altro che la malattia e con quegli sguardi tristi lo condannassero inevitabilmente alla morte, perché sembrava che avessero perso anche loro la speranza di poterlo salvare.

Inarcai un sopracciglio e lui mi indicò con un movimento della testa la porta aperta dell'aula studio. Lanciai un'occhiata intorno, il resto dei ragazzi stavano studiando, non erano molti, sapevo che quell'aula si sarebbe riempita non appena sarebbe iniziata la prima sessione di esami. Chiusi i libri per seguirlo fuori. Nonostante la mia giornata fosse stata programmata in modo da evitare qualsiasi contatto con quel ragazzo, non appena i miei occhi si erano impossessati di quella luce intrinseca che illuminava il suo sguardo, non avevo potuto far altro che seguirlo. Non avevo idea di cosa avesse da dirmi, forse voleva chiedermi di fingere di odiarci, o forse voleva riprendere le partite a carte che avevamo interrotto una settimana prima, qualsiasi cosa mi avesse chiesto io mi sarei trovato a doverlo guardare negli occhi e a rispondergli senza farmi però ingannare da quei colori spaiati. Arrivammo in corridoio e lui si poggiò con la schiena contro il muro, era visivamente stanco e sudato. Le ciocche gli si erano appiccicate alla fronte. Solo in quel momento mi resi conto del modo in cui respirava, cercava di espandere più possibile il torace e la bocca era sfessurata, con il labbro inferiore che tremava a ritmo dell'aria che lo accarezzava prima di invadere la trachea.

L'imperfezione della necessitàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora