La cena continuò senza di me, perché io mi alzai con la voce di mia madre che mi seguiva per il corridoio e uscii di casa sbattendo la porta. Non sapevo dove sarei andato o il motivo per cui fossi uscito così all'improvviso, non avevo preso nemmeno un libro da leggere sulla panchina del parco come facevo di solito quando litigavo con i miei genitori. Durante il liceo era capitato spesso di ritrovarmi al parco a leggere, avevo scoperto che mi rilassava e mi calmava, così da poter poi tornare a casa e chiedere scusa. È così che mi sono appassionato alla lettura, non lo avrei mai pensato, ma i libri sapevano come accompagnare le mie emozioni, qualsiasi esse fossero.
Avevo le chiavi della macchina perché mi erano rimaste in tasca, me ne accorsi solo quando il vento soffiò e mi obbligò a rintanarmi all'interno della mia stessa giacca, così decisi di fare un giro nel quartiere, di cercare le differenze rispetto ai pochi mesi prima in cui mi ero fatto un giro in zona, qualche insegna nuova, qualche cartellone rimpiazzato, cose stupide che però facevano sembrare all'avanguardia il quartiere.
Guidai senza pensare, seguii la riga bianca di mezzeria, come se mi stessi facendo guidare dalla sorte. Girai un paio di volte, mi fermai a tre semafori rossi, accelerai a un paio di gialli e alla fine mi ritrovai in un grande parcheggio che conoscevo fin troppo bene.
Lasciai la macchina e mi guardai intorno, era illuminato dai lampioni e quella luce artificiale mi permetteva di studiare l'ambiente intorno a me senza dovermi forzare in alcun modo. Il vento soffiava e mi spostava i capelli, il cappuccio della felpa veniva sbatacchiato da un lato e dall'altro e le dita cercavano calore all'interno delle tasche, fu una delle rare volte in cui non trovai un vecchio scontrino o un fazzoletto usato all'interno di quelle tasche, probabilmente perché, quando mi trovavo a casa dei miei genitori, mia madre aveva l'abitudine di svuotare le tasche delle mie giacche e felpe quando le trovava appese in ingresso perché sapeva che poi in lavatrice gli scontrini o i fazzoletti avrebbero rovinato il lavaggio, o meglio, questa era la scusa che usava più spesso, in realtà io ero sicuro lo facesse per ficcanasare nelle mie cose, nella mia vita, come se in tasca tenessi i bigliettini con i segreti che mi scambiavo con Kirishima.
Alzai il viso ignorando che in quel modo il vento riusciva ad incanalarsi nel colletto della giacca e posai gli occhi sull'edificio enorme che, con la scritta HOSPITAL in cima, sembrava invitarmi ad entrare. Così feci, entrai fingendo di recarmi lì solo per riscaldarmi un po', non era normale quel freddo in quel periodo.
Mi nascosi il più possibile tra i pazienti del pronto soccorso e con un po' di fatica riuscii ad arrivare al piano dove lavorava mia madre. Non sapevo come mai mi fossi ritrovato lì alle undici di sera, ma decisi che ormai mi ero spinto troppo avanti per tornare a casa. Come un maratoneta che, superata la metà della strada che deve percorrere, è a corto di fiato ma decide di proseguire perché la strada davanti a lui è più corta di quella che si è lasciato alle spalle.
Camminai con decisione controllando i numeri delle stanze, mi ricordavo quello letto sulla cartella quella mattina e mi ci fermai di fronte. 1807. La porta era chiusa, non avevo la certezza che quel paziente rimanesse a dormire in ospedale, ma feci un tentativo perché dallo spiraglio passava della luce. Bussai un paio di volte, solo per avvertire della mia presenza, ed entrai senza nemmeno aspettare una risposta di consenso dall'interno. Il maratoneta credeva di aver raggiunto il traguardo, ma non sapeva che la parte difficile non era ancora arrivata, così mi sentii una volta superato l'uscio di quella stanza d'ospedale.
"Che ci fai qui?" mi aggredì subito il bicolore, che si trovava in piedi accanto alla finestra. Doveva aver avvicinato il viso al vetro perché su quello c'era ancora l'alone di condensa del suo respiro. Mi chiesi se, nel caso non fossi arrivato a disturbarlo, avrebbe scritto qualcosa con il dito su quell'alone di condensa perché, a dire la verità, era una cosa che io facevo sempre, era più forte di me, se per caso trovavo dei vetri con la condensa ad appannarli, io dovevo lasciare un segno del mio passaggio, se mi trovavo in compagnia di Denki, di solito, si trattava di un insulto nei suoi confronti, giusto per infastidirlo un po'.
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L'imperfezione della necessità
FanfictionQuando odi una persona le auguri i peggiori mali al mondo, ma, quando scopri che nasconde un segreto e che il male vive accanto a lui, tutte le tue certezze crollano e vorresti solo esser rimasto all'oscuro di quel pesante segreto. Una enemies to l...