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Denki tornò al campus un paio di settimane dopo. Una volta dimesso dall'ospedale, aveva deciso di andare a casa per stare un po' con sua madre, non ero a conoscenza del motivo vero e proprio che si celava dietro quella decisione, lo capii solo dopo qualche giorno dal suo rientro.

La sua parte di stanza era tornata ad essere il solito cosino e io ero grato per quello. Mi era mancato tutto della convivenza con quel ragazzo. La sua risata esagerata, i suoi starnuti ogni volta che si affacciava alla finestra, ancora non mi è chiaro perché starnutisse quando metteva il naso fuori della finestra, i suoi libri fantasy sul pavimento, le sue lenzuola dei Pokémon e lui, semplicemente lui.

Era tornato ormai da quattro giorni e continuava a spostare il borsone da un lato all'altro della stanza, senza però svuotarlo. Mi ero proposto anche di aiutarlo, ma lui preferiva tirare fuori le cose man mano che le indossava. Di quel passo avrebbe finito di svuotare il borsone dopo un mese. Ma non mi lamentavo, non riuscivo a lamentarmi perché la sua sola presenza mi aveva ridato serenità. Il periodo che avevo passato da solo in quella stanza mi ero ritrovato a passare le ore con le cuffiette nelle orecchie e il volume al massimo, solo perché in quel modo potevo sovrastare il silenzio che aveva lasciato Denki. Era come se volessi riprodurre nella mia testa la sua continua confusione.

"Credo che il secchio sia pieno" dissi, lanciando un'occhiata al secchietto accanto alla scrivania. Al suo interno c'erano fogli accartocciati, involucri di caramelle o panini, pennarelli consumati e scontrini del bar. Una sfilza di scontrini che testimoniavano la nostra dipendenza da caffè.

"Vado a portare la busta giù" vidi Denki chiudere la bustina e uscire dalla stanza. I secchioni erano per strada, a pochi metri da ogni dormitorio per fortuna, quindi non ci pesava più di tanto andare a buttare l'immondizia. Di solito decidevamo chi doveva scendere in strada giocando o a morra cinese o una partita a carte, ero solito vincere contro Denki, quindi si era anche abituato a dover buttare lui l'immondizia. Non ci impiegava più di cinque minuti, si divertiva a cronometrarsi, come fosse un atleta olimpico. Faceva partire il cronometro quando usciva dalla stanza e poi rientrava di corsa e premeva il pulsante interrompi sul cellulare. Esultava sempre, anche quando faceva un tempo pessimo. Trovava scuse alternative per averci messo più del solito, come ad esempio la volta che aveva impiegato venti minuti abbondanti e aveva dato la colpa a un cinghiale. A detta sua il cinghiale era vicino ai cassonetti e lo aveva guardato male, aveva dovuto aspettare che se ne andasse prima di poter tornare nel dormitorio.

Guardai l'orologio, anche quella volta stava impiegando più tempo del solito. Cominciai a immaginare le possibili scuse che avrebbe potuto usare, ma non me ne venne in mente nessuna geniale come quelle che riusciva a inventare lui. Quando mi resi conto che era passato un quarto d'ora, mi alzai dalla scrivania lasciando cadere l'evidenziatore aperto sul libro e uscii rapidamente dalla stanza anche io.

Non credevo che l'episodio di qualche settimana prima mi avesse lasciato un segno così evidente nella mente. Senza rendermene conto avevo cominciato a controllare Denki anche quando si trovava semplicemente sdraiato sul suo letto a leggere, come se il perderlo di vista potesse diventare motivo di disgrazia.

Scesi le scale e arrivai in atrio con il fiato leggermente affannato, più per l'ansia che per la corsa in sé. Era lì, in piedi di fronte alla porta a vetri del dormitorio. Guardava la strada illuminata dai lampioni e non muoveva un muscolo. Aveva ancora la bustina chiusa con un fiocco, perché il fiocco è più carino del banale nodo che fanno tutti, questo diceva ogni volta che chiudeva lui la busta, e non muoveva un passo.

Mi avvicinai piano, come si farebbe con un animale selvatico, e arrivai al suo fianco. Era pallido, ma lo era da quando era tornato, ancora non si era ripreso del tutto. Gli posai una mano sulla spalla e osservai il suo profilo irrigidirsi. Mosse solo lo sguardo verso di me. A rallentatore le iridi color ambra mi fissarono. Era uno sguardo allucinato, spaventato, come se avesse appena assistito a un evento sovrannaturale. Mi guardai intorno perché mi venne davvero il dubbio che ci fosse qualche fantasma o creatura spaventosa.

L'imperfezione della necessitàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora