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Per le vacanze di Natale tornai a casa dai miei genitori. Non vidi i miei amici per un po' e non ne sentii la mancanza, non come avrei dovuto almeno. Avevo deciso di isolarmi, di chiudermi in me stesso e concentrarmi su ciò che mi stava succedendo. La mia camera da letto, finalmente non quella condivisa con Denki, era diventata il mio confessionale privato, tiravo fuori tutti i miei dubbi, i miei problemi, le mie fisse e cercavo di dargli un senso, anche se sembravano non avere né capo né coda.

Prima avevo creduto di provare qualcosa per Kirishima, sentimenti poi confutati dal mio non voler assolutamente una relazione con lui. Devo ammettere che, per rendermi conto che il rosso era soltanto un amico, avevo impiegato pochissimo tempo, mi era bastato immaginarmi al suo fianco e realizzare che mai avrei voluto amarlo come si amavano i miei genitori. Preferivo di gran lunga l'amicizia.

Poi avevo creduto che mi infastidisse il fatto che Shinso non mi avesse parlato della sua relazione con Shoto, pensando che il problema fosse la possibilità di integrare ancora di più quello stronzo nel nostro gruppo di amici. Ma quando poi avevo visto Shinso e Shoto baciarsi sotto la neve, con il loro fiato caldo che si condensava in piccole nuvolette che circondavano i volti arrossati, tutte le mie certezze erano andate in fumo. Non sapevo più quale fosse il vero motivo per cui non approvassi la loro relazione.

Il giorno in cui finirono le vacanze di Natale, decisi che era il momento di parlare con Shinso e chiarire. Non sapevo se i miei sentimenti erano rivolti a lui o se fosse ancora il mio odio nei confronti di Shoto a muovere i fili della mia vita, come fossi una marionetta guidata solo dai sentimenti. L'unica cosa che sapevo era che avevo intenzione di prendere le distanze da entrambi, qualsiasi fosse il motivo per cui non gradivo vederli baciarsi.

Chiesi a Shinso di incontrarci al solito bar del campus perché ormai ero tornato a vivere lì, anche se già mi mancava il calore della famiglia e della camera personale. Avevo provato a trovare delle scuse per cui dovessi rimanere dai miei genitori per qualche altro giorno, ma non ero riuscito né a convincere mia madre, mio padre era più tranquillo dal punto di vista universitario, né me stesso, che mi sentivo un idiota a non voler tornare al campus. In più, Denki mi aveva iniziato ad assillare tre giorni prima del rientro chiedendomi le cose più astruse, come il gusto delle caramelle che volevo mangiare la prima sera che avremmo visto un film arrotolati nelle coperte di pile o il colore dei post it che poi mi avrebbe prestato perché, su questo aveva ragione, gli rubavo sempre i post it lamentandomi dei colori fluo che sceglieva.

Vidi Shinso entrare nel locale, riscaldato dalle stufette, e gli feci segno con la mano. Gli avevo già ordinato il caffè, amaro senza zucchero, come lo prendeva ormai da anni. Si sedette e mi fissò con i suoi occhi color lavanda, un altro paio di occhi particolari che avevano accompagnato la mia vita. Era capitato più volte che la gente che non lo conosceva gli chiedesse se portava delle lenti colorate e lui, sempre imbarazzato da quella specie di complimento, rispondeva semplicemente scuotendo la testa in negazione.

"Dimmi, Bakugou" il tono non era seccato, sembrava un misto tra lo stanco e il confuso. La luce della mattina gli colpiva la metà destra del volto e lo obbligava a strizzare leggermente gli occhi. Le ciocche lievemente mosse assumevano sfumature più chiare o più scure in base a quanta luce catturavano e le dita affusolate giocherellavano con il manico in ceramica della tazzina del caffè.

"Come va con Shoto?" chiesi per tastare il terreno. Se in quel momento mi avesse risposto che si erano lasciati, che non lo avrebbe mai più visto, io non avrei continuato per la mia strada, non mi sarei obbligato ad allontanarmi da lui, ma la sua risposta, purtroppo, fu diversa da quella che avevo sperato.

"Bene, anzi, molto bene. Credo di amarlo, o forse ancora no, ma presto mi innamorerò di lui, lo so. Non ci si può non innamorare se lo si conosce per bene" sorrideva a tratti, arricciava il naso ogni volta che doveva nominare l'amore e sbatteva eccessivamente le palpebre, come se fosse convinto di star sognando e di doversi svegliare.

L'imperfezione della necessitàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora