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La chiamata dell'ospedale arrivò mentre ero a lezione, vidi lo schermo illuminarsi e il numero apparire all'improvviso. Lo avevo riconosciuto perché mi era capitato di digitarlo quando ero più piccolo, quando chiamavo l'ospedale per chiedere a mia madre di venirmi a prendere a scuola perché non ci volevo rimanere. Fingevo spesso di non sentirmi bene, mal di pancia, emicrania, mal di denti e, quando ero più fantasioso, mi inventavo addirittura sintomi attribuibili solo ad anziani di ottant'anni. Una volta, all'ennesima chiamata in cui elencavo tutti i malanni che avevo inventato sul momento, per mettermi paura, mia madre mi prelevò da scuola e mi portò in ospedale, finse di prenotare una radiografia e chiese a un medico di visitarmi. Ovviamente, nel momento in cui il medico disse che dovevo farmi mettere una supposta, mi aggrappai ai pantaloni tirandomeli su fin sotto le ascelle e cominciai a scuotere la testa, ripetendo che stavo benissimo e che avevo inventato tutti i miei malanni. Da quel giorno smisi di fingere di stare male, temevo troppo che potesse portarmi di nuovo dal medico delle supposte.

Uscii di corsa lasciando quaderni e libri sul banchetto e obbligando tutta la mia fila ad alzarsi per farmi passare. Calpestai distrattamente qualche piede e non chiesi scusa, ero troppo concentrato a rileggere i numeri che componevano il prefisso dell'ospedale. In realtà credo che non avrei chiesto scusa nemmeno nel caso in cui fossi dovuto andare al bagno. Il professore provò a bloccarmi appena prima dell'uscita, ma io lo fulminai e gli dissi rapidamente che mi stava chiamando l'ospedale, per una volta non mentii a un professore.

Quando finalmente risposi al telefono, mi portai il cellulare all'orecchio e con voce tremante chiesi chi fosse. La mia più grande paura era che la telefonata giungesse da mia madre e che mi avesse contattato per informarmi che Shoto non c'era più, che se n'era andato per sempre, lasciandomi in un mondo privo di quel paio di occhi eterocromi che sapevano regolare la luminosità di qualsiasi stanza in cui si trovassero. Mi tremavano le mani, mi mancava l'aria, tant'è che cercai di affacciarmi il più possibile da una finestra, ma dovetti tornare subito dentro e poggiarmi con la schiena contro la parete perché le gambe tremavano e stavano per cedere sotto il peso del mio corpo. Sentivo il cuore risalire lungo la gola, crearsi un percorso sfruttando l'elasticità dell'esofago e la mia difficoltà nel deglutire. Chiusi gli occhi e inspirai profondamente quando dal cellulare fuoriuscì la voce baritona di Enji Todoroki. Ancora la paura di aver perso per sempre il bicolore era insita in me e in tutti i miei muscoli, soprattutto il cuore che ormai aveva raggiungo la faringe e sembrava volesse a tutti i costi venir vomitato fuori. Deglutii e risposi con un mugugno di assenso quando il padre di Shoto chiese se stesse parlando con Bakugou Katsuki. Per un attimo dovetti addirittura riflettere se si trattasse davvero del mio nome. Lo sentii sospirare rumorosamente, come se stesse cercando le parole giuste, e lì credo di aver perso completamente la ragione e la capacità di respirare. Andai in apnea, mi aggrappai con la mano al tessuto della felpa esattamente a livello del cuore, in effetti era ancora lì nel petto quell'organo pulsante, batteva e si scontrava con le costole ripercuotendo il proprio ritmo sul palmo sudato della mano. Strizzai gli occhi fino a farmi scoppiare un mal di testa istantaneo e caddi in un silenzio assoluto. Ero in attesa di un qualche segno dall'altra parte, buono o cattivo che fosse, avevo bisogno di sentire la voce di Enji Todoroki e, finché non avessi sentito una sentenza da parte sua, io non avrei ripreso a respirare. Credevo di morire lì, in quel corridoio, perché il chirurgo impiegò davvero un'infinità di tempo per espormi la situazione.

I documenti erano stati firmati e il ricevente, Shoto, era pronto per la donazione. Quando realizzai la notizia che mi aveva appena dato Enji Todoroki, riuscii a ricordare di nuovo come si respirasse e riaprii gli occhi rendendomi conto solo in quel momento che c'era il sole e che il cielo non accennava a volersi oscurare con delle nuvole. Era una bella giornata, ma credo che l'avrei considerata tale anche se dal cielo fosse sceso il diluvio universale. Corsi al dormitorio, la maratona iniziava ad avere un senso per me, il traguardo sembrava fosse stato allestito, non da Shoto ma da Enji Todoroki e a me non importava più di tanto, l'importante era che come premio finale della maratona ci fosse la buona salute del bicolore. Mi fiondai nella mia stanza per recuperare la documentazione che attestava che ero un donatore compatibile e in cui richiedevo di fare una donazione diretta al paziente Shoto Todoroki e poi mi lasciai dietro le spalle anche il dormitorio.

L'imperfezione della necessitàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora