67. Perché i guai non hanno mai una fine

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Kalea's P.O.V.


Mi sento esausta, esaurita da qualsiasi tipo di energia. Il cuore mi pulsa nel petto con talmente tanta foga che sono in grado di percepirlo all'altezza della gola. Chiudo gli occhi e stringo con forza le palpebre nella speranza di non sentire più quella stanchezza straziante che mi aggroviglia le viscere senza lasciarmi respirare in pace. Perché deve fare sempre tutto così male? Non riesco a darmi risposta e in realtà ci penso da fin troppo tempo. Lascio andare l'ennesimo respiro carico di dolore. Le mie palpebre si sollevano nuovamente permettendo alle mie pupille di focalizzarsi sul soffitto scuro. L'accenno di un sorriso mi incurva le labbra verso l'alto. Solo Eris avrebbe potuto far dipingere anche il soffitto della stanza di nero. Per un momento un ricordo lontano mi da l'impressione che il tetto non fosse sempre stato di quel colore. Le tende spesse e altrettanto scure non permettono ai raggi solari di filtrare nella stanza. Copro la bocca con la mano per tentare di placare l'ennesimo sbadiglio degli ultimi cinque minuti. Forse potrei provare a dormire un po', sono certa che nessuno mi cercherà qui dentro, e se anche dovesse tornare Eris non penso che sia in grado di arrabbiarsi con me dopo avermi lasciata completamente sola sulla spiaggia. A malapena riesco a finire di formulare il mio pensiero che gli occhi mi si fanno pesanti e il mondo dei sogni non mi pare poi così lontano ed irraggiungibile.


Un rumore forte ed improvviso mi fa svegliare di soprassalto. Il mio sguardo si posa in maniera fugace sull'orologio posto sul comodino. Ho davvero dormito sei ore? Il mio stesso pensiero mi fa rendere conto di quanto fossi effettivamente stanca. La testa mi duole all'inverosimile, procurandomi nello stesso momento un forte senso di nausea. Ora capisco perché avevo smesso di bere così tanto. Inizio a frugare nei vari cassetti del comodino nella speranza di trovare un'aspirina e niente di troppo compromettente. Non credo che sarei in grado di guardarla con gli stessi occhi semmai dovessi trovare qualcosa di strano. Un urlo stridulo e agghiacciante ferma la mia mano sul pomello dell'ultimo cassetto. Corrugo la fronte e allo stesso tempo tento di proiettare il mio udito al di fuori delle quattro mura in cui mi trovo, nella vaga speranza di comprendere a chi appartiene quel suono. Udendo unicamente il silenzio torno a concentrarmi sulla mia ricerca di un'aspirina. Mi blocco di nuovo, questa volta certa di aver sentito una voce familiare. L'istinto scatta immediatamente in allerta, afferro in maniera sbrigativa la mazza da baseball metallica poggiata dietro la porta e cautamente esco dalla stanza in cerca di quella voce. Mi muovo attenta a non fare rumore con i miei passi, nascondendo dietro la schiena quella che parrebbe essere la mia arma improvvisata. Diversi pensieri passano per la mia mente, facendomi addirittura ipotizzare la presenza di alcuni ladri all'interno del Quartier Generale. Mi devo però ricredere quando giungo sull' imbocco della cucina, tant'è che anche il mal di testa che mi trafiggeva le tempie passa in secondo piano. La scena che mi si para di fronte è a dir poco surreale. Con il braccio teso Amelie tiene il mirino di un revolver premuto sulla tempia ormai livida di Savannah, segno che più volte deve averla colpita con il metallo freddo in quel punto. La ragazza dai capelli rossi trema, deglutisce spesso e velocemente, la pelle è pallidissima e i suoi occhi scattano in ogni luogo possibile in cerca di un qualsiasi tipo di scappatoia. Per una frazione di secondo i nostri sguardi si incrociano e prontamente le faccio segno di non dire niente, ovvero di non farsi scoprire, e lei è abbastanza reattiva da riuscire a non sgranare gli occhi dopo aver constatato della mia presenza. «Lo sai che dovrei ucciderti vero? Tu dovresti star dormendo esattamente come tutti quelli nell'altra stanza, invece sei rimasta qui a sbirciare, proprio da brava pettegola del clan. Non è così?» Amelie pare minacciare per l'ennesima volta Savannah e lo si deduce dalla lacrima incontrollata che inizia a scorrere sulla guancia di quest'ultima. La giovane donna dai capelli dorati le afferra con forza le guance, stringendo a tal punto da rendere il segno visibile dalla mia posizione. «A questo punto direi che è piuttosto inutile piangere, non credi? Facciamo così: io ora non ti uccido, ma se dovessi scoprire che hai raccontato a qualcuno quanto hai appena visto, ti posso giurare sull'anima di mia sorella che ti verrò a cercare fino in capo al mondo pur di toglierti la vita con le mie stesse mani.» Il modo in cui digrigna i denti per la rabbia mi fa capire quanto lei sia convinta delle sue stesse parole. Mi concedo giusto il tempo di fare un respiro profondo, nel mentre la mia mente elabora quanto necessario per agire. Decido di sfruttare il fattore sorpresa, indubbiamente l'unico elemento a mio favore in questo momento. Faccio roteare la mazza da baseball con il polso prima di infrangerla con tutta la forza che possiedo contro il vetro del pensile alla mai destra. Lascio che i frammenti volino ovunque nella stanza mentre non posso fare a meno di sentirmi soddisfatta per il trambusto che si è venuto a creare con la rottura del mobile. Spero che qualcuno abbia sentito e si sia svegliato, una mano in più non fa mai male. Amelie si volta di scatto verso di me scrollandosi i pezzi di vetro dai capelli. «Tu.» l'ira nella sua voce è palpabile nell'aria. «Chi altro poteva essere se no?» La derido esprimendo pura nonchalance. Il sorriso sul mio volto sembra innervosirla esattamente quanto sperassi. L'arma che prima era puntata su Savannah, ora è rivolta verso di me. Con un cenno veloce del capo incito la ragazza alle spalle della bionda di fuggire, come sperato mi dà ascolto ed esce dalla porta sul retro della cucina. Amelie osserva la scena digrignando i denti per la rabbia. «Come osi?!» Muove un passo verso di me continuando a mirare con il Revolver in direzione del mio petto. «Ti avvicini perché sai di non avere una buona mira da lontano?» continuo ad istigarla, certa di farla innervosire sempre più ad ogni respiro che faccio. «Kalea se vuoi morire basta che lo dici, non serve mettere in scena tutto questo spettacolo, una pallottola nel cuore e passa la paura.» La cattiveria le trasuda da ogni poro del corpo. «Cosa stai aspettando a farlo?»Qualcosa muta nel suo sguardo, segno che sono giunta al punto di non ritorno. Emetto un basso sospiro. Possibile che nessuno si sia ancora accorto di niente? Il presentimento che ci sia qualcosa di molto anomalo in tutta la situazione mi fa accapponare la pelle. Che diavolo sta succedendo? Dove sono tutti? Eris? Aiden? Per un fugace momento i miei pensieri si focalizzano sul ragazzo la cui pelle è una tela interamente dipinta. Che stia dormendo anche lui? No, non è possibile, se ne sarebbe certamente accorto. Lui non è stupido. Mi rendo conto di aver perso fin troppo tempo nei miei pensieri quando mi accorgo che Amelie ha mosso altri due passi nella mia direzione, ora a meno di tre metri da me. Il suo dito affusolato e accuratamente smaltato di rosso inizia ad accarezzare languidamente il grilletto dell'arma da fuoco. «Quali sono le tue ultime parole?» La sua voce è affilata come mille rasoi, motivo per il quale decido di rivolgerle un ultimo sorriso provocatorio. «Vai a farti fottere.» Nel momento esatto in cui il suo corpo si muove per far sì che il grilletto venga premuto, una voce vicina e che mi sblocca un ricordo lontano si intromette: «Ferma!» Una mano dall' incarnato abbronzato si posa sulla canna del Revolver, puntando verso il basso il mirino con il colpo che ormai era partito e che finisce per infrangersi contro la gamba del tavolo della cucina. Sobbalzo leggermente, ma i miei piedi restano incollati al pavimento, nell' esatto punto in cui ero prima. «Juan che cazzo fai?!» La voce stridula di Amelie interrompe di colpo il ricordo che aveva iniziato a ricrearsi vividamente nella mia mente. «J-Juan?» Il nome esce fuori dalle mie labbra in maniera fin troppo tremolante, non come avevo previsto. L'uomo punta i suoi occhi verdi nei miei fin troppo simili. Il sorriso che mi rivolge mi fa comprendere immediatamente chi è e come mai io ricordassi di lui. «Ciao nipotina.» Il mio corpo resta paralizzato sul posto, l'unica cosa a muoversi sono i miei occhi che non fanno altro che alternarsi ripetutamente fra Amelie e mio zio. Li indico. «Che cazzo sta succedendo?!» La confusione sul mio volto è più che palese. «Io stavo cercando un certo Aiden Mcrory. Quello stronzetto si fa addirittura chiamare "Il Re di New York". Pivello del cazzo.» Il disprezzo nella sua voce mi fa torcere il naso. Aiden è un ragazzo dalla moralità indubbiamente discutibile, ma non credo proprio che sia un pivello come lui invece afferma. Incrocio le braccia al petto. «Ciò non spiega la presenza di Barbie.» Accenno con una mano alla ragazza al suo fianco. Juan si sbatte una mano in fronte con finta teatralità. «Oh cavolo! Che sbadato! Non vi ho presentate, colpa mia. Nipotina cara ti presento Amelie, mia moglie.» Per un momento mi pare di non avvertire più la presenza del terreno sotto ai miei piedi. C'è qualche cosa di strano nell'aria in quest'ultimo periodo? No perché a questo punto non riesco veramente a comprendere cosa diamine stia accadendo alla mia famiglia nelle ultime settimane. La ragazza dai capelli biondi inizia ad accarezzare maliziosamente il braccio di mio zio. Il disgusto prende il pieno possesso della mia espressione facciale, non riuscendo e non volendo nemmeno provare a nasconderlo. L'aria di superiorità che Juan continua a sfoggiare con un sorriso arrogante non fa che far aumentare la mia voglia di farglielo sparire. Mi ricompongo e decido di ricambiare l'atteggiamento arrogante, sfoggiando il suo stesso sorrisino, anzi, uno ancora meglio. Mi guardo le unghie con assoluta indifferenza per poi riportare i miei occhi nei suoi. «Deve essere un matrimonio aperta allora.» Il volto di Amelie muta drasticamente dopo aver udito le mie parole. Juan ingrossa le spalle facendosi avanti di un passo. «Cosa vorresti dire con questo?» Il suo tono minaccioso non mi inquieta per niente. A mia volta faccio un passo avanti. «Che se lei va in giro vantandosi di stare con quello che tu hai definito "Pivello del cazzo", allora o si tratta di un matrimonio aperto, oppure sei un fottuto cornuto.» La mia voce è pacata, ma i miei occhi esprimono arroganza pura. L'uomo sulla trentina si muove in fretta nel tentativo di afferrarmi per il collo, io però, avendo previsto il suo gesto, mi scosto all'indietro senza lasciare alle sue dita nemmeno il modo di sfiorarmi. Mi lecco le labbra con divertimento. «Deduco siano corna allora.» continuo ad infierire con noncuranza. L'ironia è l'unica arma ancora a mia disposizione. «Le corna sono quelle che tuo padre mise a tua madre concependo quel bastardo del tuo fratellastro.» Stringo i denti affilando lo sguardo. Questo era un colpo basso Juan. «Lui lascialo fuori.» Mi trattengo dal serrare le mani in due pugni. «Intendi quel infame di tuo padre o quel bastardo di Sebastian?» Sentire Amelie pronunciare quelle parole con tale crudeltà fa scattare dentro di me una sensazione forte, viscerale, proveniente da un angolo talmente tanto buio della mia mente da spaventarmi da sola per la sua intensità. La pelle inizia a formicolarmi per la rabbia e per la voglia di farle del male. Sul serio ha deciso di intromettersi nella conversazione? Pessimo errore. Stringo i denti e decido di ferirla con la sua stessa arma: le parole. Mi lecco le labbra prima di esprimere ad alta voce i miei pensieri. «Pensi di essere una Dìaz solo perché sei sposata con mio zio? Patetica. Il cognome deriva dal sangue, non da un legame costruito. Inoltre, credo che sappiamo entrambe chi ha ucciso tua sorella, non è così? Non penso che io debba ricordarti qual è stata la sua fine e mi auguro che tu non voglia fare il bis.» La cattiveria che mi impregna la punta della lingua è alimentata dalla profonda sensazione di rabbia che continua a scorrermi nelle vene dopo la sua intromissione nel discorso con mio zio. «Kalea, finisce male. Questa volta se continuerai ad istigarla non farò nulla per fermarla dall'ucciderti. Inoltre sono certo che ci siano altri cinque colpi nel caricatore del Revolver.» Mi ammonisce Juan facendo scudo con il suo corpo alla ragazza dai capelli dorati. «Allora perché la stai proteggendo da me con il tuo corpo? Hai forse paura che io possa farle del male? Oppure credi che io sia fin troppo figlia di mio padre?» Un sorriso freddo, calcolatore e arrogante inizia ad essere sempre più insistente sul mio volto.

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