24. Piano A

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EDOARDO

Arriviamo al parcheggio del carcere, mi sistemo i baffi e scendiamo dalla macchina.

«Qual è il piano B?» chiede Miriana, con tono ovvio, come se dovessi averne uno.

«Piano B?»

«Sì, se si accorgono che hai un documento falso, che facciamo?»

«Non ho un piano B, vivo solo di piani A», le faccio l'occhiolino.

«Ma il protocollo delle operazioni speciali...» ricomincia, facendomi sospirare.

«Ti sembriamo in veste ufficiale per caso?»

«No, ma...»

«Allora andiamo, e che San Gennaro ce la mandi buona», le mostro un sorriso tirato e mi avvio, ma la sento mormorare un "Oddio" dietro di me.

«Buongiorno», rivolgo un sorriso innocente alla signora seduta dietro il vetro.

«Nome del prigioniero?» risponde senza convenevoli, masticando a bocca aperta una gomma.

«Sandro Pacelli», la informo.

«Grado di parentela?» chiede lasciandomi sprovvisto.

«Siamo agenti, investighiamo su un caso», esordisce Miriana, mostrando il distintivo.

È pazza, questa è pazza.

La signora ci squadra da capo a piedi, poi guarda i nostri documenti, guarda di nuovo noi, e ancora le carte d'identità, tralasciando il distintivo della bionda come se non avesse alcun valore.

Il cuore batte all'impazzata, e vedo Miriana visibilmente agitata, la gamba le trema, così le stringo il braccio attorno alla vita; fa un respiro profondo e mi osserva con la coda dell'occhio, ma smette di tremare.

«Firmate questo modulo», esordisce la signora allo sportello, dopo aver smanettato un po' col computer. Facciamo come dice in totale fretta, talmente tanta che sono pronto a scrivere la E, ma per fortuna ricordo che mi chiamo Adriano, oggi.

«Grazie, arrivederci», rispondo restituendole il modulo, e trascino via Miriana prima che svenga.

«Hai la mano ferma mentre punti la pistola contro un uomo ma tremi in queste situazioni?» le sussurro, mentre una guardia ci scorta nella stanza delle visite.

«Non avevi un piano B!» mi rinfaccia.

«Be', è andato bene il piano A», le faccio notare soddisfatto, nel mentre che ci accomodiamo al tavolo.

«Dov'è?» domanda impaziente.

«Arriva», rispondo indicando l'uomo che entra ammanettato: secco al tal punto che nella tuta ci può nuotare, il viso scavato, gli occhi tetri.

«Avete mezz'ora, oggi Pacelli è di turno in mensa» ci informa la guardia, per poi mettersi in un angolo della stanza.

«Amico mio, ma ti danno da mangiare qui?» gli chiedo per smorzare l'atmosfera.

«Chi cazzo siete voi?» domanda schivo.

«Ci conosciamo bene, io e te», gli mostro il tatuaggio dietro il collo, che raffigura lo stemma del giro di cui facevamo parte insieme, infatti lo ha anche lui; l'ho visto subito, non è difficile notarlo dato che è rimasto pelato come all'epoca.

«Mariani? Sei tu?» sussulta alla vista del tatuaggio, incredulo.

«Proprio io».

«Sembri un coglione con questi baffi» risponde scontroso, dopo avermi osservato attentamente.

«Grazie, sei sempre molto gentile», gli sorrido ironicamente.

«Lei? La tua nuova puttanella?» domanda, facendomi scattare come una molla, portandomi a dare un pugno sul tavolo, facendo voltare tutti.

«Edo, calmati, non attiriamo l'attenzione», Miriana mi richiama, avvolgendo tra le sue mani la mia, chiusa ancora dalla rabbia.

Noto la guardia che si aggira attorno a noi, ma quando incrocio lo sguardo di Miriana, improvvisamente mi riporta alla realtà, facendomi sospirare; per poi portare giù la mano, ma quando lei prova a spostarla, per qualche assurdo motivo il mio istinto la blocca, tenendola stretta sotto il tavolo.

«Dobbiamo parlare di una cosa seria, Sandro», continuo guardando dritto negli occhi l'uomo di fronte a noi.

Non risponde, fa solo un cenno con la testa, tenendo la stessa espressione burbera che ha da quando è entrato.

«Ti ricordi chi ti ha incastrato, il motivo per cui sei qui?» comincio, serio più che mai.

«E che so scemo?»

«Sandro, ci devi dire dove sono», gli spiego cosa vogliamo sapere, ma lui sembra irrigidirsi.

«Dove sono chi?»

«Hai capito», gli lancio un'occhiataccia.

«Io non so niente», resta imperterrito.

«Pacè, vogliamo la stessa cosa».

«Ah sì?»

«Che cosa vuoi in cambio?» s'intromette improvvisamente Miriana.

Lui ci pensa qualche secondo, continuando a spostare lo sguardo da me a lei.

«Sigarette ne avete?»

«Vuoi solo...delle sigarette?» domando con stupore.

«Sì, sigarette; non ho nessuno che mette i soldi sul mio conto, la buon'anima di mia madre se n'è andata anni fa», spiega, rivolgendo gli occhi al cielo.

«Va bene, tieni», acconsento, gettando il pacchetto sul tavolo con la mano libera.

Sandro lo guarda, resta in silenzio e mi lancia un'occhiataccia.

Sospiro e caccio dalla tasca un altro pacchetto, l'ultimo che ho.

Mi guarda di nuovo restando in silenzio.

«Amico non ne ho più, ti accontenti?»

«Allora voi accontentatevi del mio non sapere nulla».

«Sandro te lo giuro...» inizio con rabbia una frase che non riesco a finire, perché Miriana mi stringe la mano.

Perché ci stiamo ancora tenendo per mano?

La lascio, facendo finta di non notare la sua espressione confusa.

«Cosa vuoi? Soldi? Dammi il numero di conto e quando usciamo da qui, con le informazioni giuste, avrai duecento mila lire», lo ricatta lei, decisa.

Mi stupisce sempre di più questa donna.

«Che volete sapere?» si arrende, al pensiero dei soldi.

«Dove sono scappati Caruso e Ferro?» domando guardandolo dritto negli occhi.

«L'Italia non era più un posto sicuro per gli affari di famiglia, dopo l'esplosione», risponde riluttante, tenendo un tono basso.

Miriana ed io ci guardiamo.

«Sono all'estero?» chiede lei.

«Non so in che paese però», continua Sandro, rivolgendo lo sguardo altrove.

«Stronzate», insisto io.

«Duecentocinquanta mila, dì altre stronzate e l'offerta salta», esordisce lei.

«Mi stupisci sempre di più, girasole», le sussurro piano, beccandomi una gomitata nel fianco.

«So solo che è un paese confinante con noi, perché sono partiti con un camper preso da uno sfascio de n'amico mio, e gli hanno detto solo che avrebbero gestito gli affari da un paese migliore. Ora st'amico mio è finito a fare il loro corriere, ma non l'ho più sentito. È tutto quello che so», spiega con una strana nota nella voce, oserei dire che ha paura anche solo di dirlo ad alta voce.

«Sentite, qui è pieno di loro uomini, quindi io non ci voglio più entrare. Tenetemene fuori», si alza, facendo cenno alla guardia.

Ora capisco.

«Grazie», rispondo con tono fermo, per fargli intendere che ho afferrato il concetto.

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