17. Volevo solo essere libero

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EDOARDO

Getto il mozzicone nel posacenere; controllo l'ora, ormai ci siamo quasi.

«Vabbè Lù io mi avvio, ci vediamo stasera», annuncio al mio amico, mentre infilo la giacca e il cappello.

«Dove vai?» domanda senza staccare gli occhi dalla TV.

«A...risolvere delle questioni in sospeso».

«Non fare casini».

«Io? Quando mai», sorrido e lo vedo scuotere la testa, prima di chiudere la porta alle mie spalle.

Arrivo all'indirizzo appuntato sul foglio, mi assicuro che non stia passando nessuno e busso al citofono "Mancini; De Santis".

Non risponde nessuno, forse è una trappola? Come ho fatto a...

«Corriere?» improvvisamente sento risuonare la sua voce, ma cosa significa? È tipo una parola in codice?

«Ehm...sì», rispondo, assecondandola.

«Secondo piano, interno 11», dice per poi aprire il portone, ma perché me l'ha ripetuto? Crede sia così imbecille? Bah, donne.

Salgo al volo le scale e suono il campanello un po' contro voglia, ma i miei sensi si risvegliano non appena mi si presenta davanti una visione: lei, gocciolante e coi capelli bagnati, avvolta in un semplice accappatoio bianco. Porca puttana.

«Oddio! Ma sei impazzito?» chiede in preda al panico, per poi trascinarmi dentro e chiudere la porta in fretta e furia.

«Ehi speravo di spogliarti io, ma mi accontento anche del contrario», dico senza staccare gli occhi dal suo corpo.

«Hai detto di essere il corriere!»

«Tu me l'hai chiesto», scrollo le spalle, confuso.

«NON MI PARE TU SIA IL CORRIERE», ribatte furiosa.

«Beh se vuoi un pacco posso consegnartelo».

«Dì un'altra parola e ti pianto due proiettili nella nuca».

«Il tuo ragionamento è assurdo, Girasole; io che ti ho già vista nuda no, ma un postino sconosciuto potrebbe vederti così?»

«No, idiota, ma ero sotto la doccia e se non apri subito di solito se ne vanno».

«Sì sì, farò finta di crederti», mi stravacco sul divano e tolgo cappello e occhiali da sole, per poi vederla alzare gli occhi al cielo e sparire nel corridoio.

Torna in salone con un pantaloncino nero e una canottiera azzurra, che lascia poco spazio all'immaginazione.

«Vuoi un caffè?» domanda richiamando la mia attenzione alla realtà.

«Certo, grazie».

«Latte? Zucchero?» chiede prendendo la moca dal mobile.

«Amaro», rispondo alzandomi per togliermi la giacca di pelle.

«Blah», pronuncia disgustata.

«Bell'appartamento», affermo mentre ammiro le varie cianfrusaglie esposte in giro.

Il salone è adiacente alla cucina, separati semplicemente da un'isola dove ci sono un paio di sgabelli, poi continua nel corridoio dove scorgo le camere da letto e il bagno.

«Stavo pensando di trasferirmi, ma non vorrei lasciare la mia amica», risponde appoggiandosi coi gomiti all'isola di marmo.

«E te lo puoi permettere?» chiedo imitando il suo gesto, ritrovandoci coi nasi a un palmo di distanza.

«Oggi ho avuto una promozione», sorride soddisfatta, per poi allontanarsi, evidentemente a disagio per la troppa vicinanza.

«Ah sì? Cosa? Supervisore del magazzino prove?» la prendo un po' in giro.

«Vice ispettore, ho preso il tuo vecchio ufficio», spiega mentre versa il caffè in un paio di tazzine azzurre.

Le piace proprio questo colore.

«Ah beh! Allora dobbiamo festeggiare», esclamo prendendo la tazza.

«Elisabetta voleva togliermi il caso della discoteca, ho dovuto convincerla a non farlo».

«Quindi sei ancora tu a capo dell'operazione?» chiedo conferma.

«Certo, sono molto brava a convincere la gente», risponde mentre mette latte e zucchero nel suo caffè, facendomi provare un senso di disgusto.

«Meno male, altrimenti ora avremmo dovuto occupare il tempo in un altro modo».

«Edoardo, è successo solo una volta, quasi dieci anni fa, non t'illudere che ci possa ricascare».

«Però devi ammettere che ti è piaciuto», sorrido compiaciuto, avvicinandomi al lavandino per riporre la tazzina vuota, bloccando lei tra il ripiano e il mio corpo.

«Ero troppo giovane per comprendere le cazzate in cui mi buttavo».

«Dai, è stata la notte più magica della tua vita».

«Oh, non fare il prezioso con me», esplode in una risata isterica, spingendomi via.

«Va bene, va bene», alzo le mani in segno di resa e la raggiungo sul divano.

«Allora, ho portato le copie dei fascicoli dall'ufficio» torna seria, cacciando mucchi di fogli e foto dalla borsa, facendo cadere tutto il resto del contenuto sul pavimento.

La sento imprecare a bassa voce, mentre si china a raccogliere tutto, e per quanto vorrei godermi il panorama, mi accascio a terra per aiutarla.

«Ehi e questa?» domando raccogliendo un pezzo di legno, per poi rendermi conto che ha inciso il mio nome.

«L'ho trovata mentre ripulivo l'ufficio, dovrei buttarla, ma se la vuoi tenere in ricordo dei bei tempi, fa pure» mi spiega rialzandosi, ma io rimango a terra a fissare quella targa, forse anche con un po' di nostalgia.

«Posso chiederti una cosa? Perché hai rinunciato alla tua carriera così?» domanda Miriana quando nota la mia espressione.

«Non volevo rinunciarci, volevo solo essere libero, ma è andato tutto a puttane».

«Racconta», dice seria, richiamando la mia attenzione su di lei.

«Non mi crederesti».

«Chi te lo dice? Mai dare nulla per scontato», afferma convinta.

«Vuoi davvero sapere tutta la storia?»

«Abbiamo tempo», annuisce.

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