51. Vi racconto la mia storia

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MIRIANA

«Che significa?» gli chiedo, sconvolta.

«Mettetevi comodi, vi racconto la mia storia...»

«Avevo solo otto anni, circa, vivevo con i miei genitori in una bellissima casa in campagna, in provincia di Napoli. Un giorno stavo giocando a nascondino con la mia mamma, e trovai il rifugio perfetto nello stanzino del sottoscala, ma lei non mi trovò mai. Notai poi, dalla piccola fessura, mio padre tornare da lavoro, stanco e arrabbiato, come sempre. Mamma aveva ritardato la cena per giocare con me, così papà la prese e la gettò sul pavimento, prendendola a calci. Lo faceva spesso, ma quel giorno qualcosa era diverso in lui, aveva gli occhi rossi, iniettati di sangue. Alla fine mamma non si muoveva più, papà si accasciò a terra, piangendo e implorando il Signore, ma ormai era morta. Prese un coltello enorme dal cassetto, rimase lì a guardarla per un po', e d'improvviso iniziò a sventrare il suo povero corpo; mise tutti i vari pezzi in sacchetti diversi, per poi gettarli via. Tutti tranne uno: il cuore.

Lo prese e uscì in giardino, lo seguii di nascosto, e lo vidi seppellirlo in mezzo al campo di girasoli che la mamma tanto amava.

Da quando lei non c'era più, picchiava solo me, tutti i giorni, tutte le sere, per un motivo o per un altro; o anche senza una ragione.

Appena riuscì, me ne andai da quella casa, avevo solo sedici anni ed ero un vagabondo che chiedeva l'elemosina per le strade di Napoli.

Poi un giorno, un santo uomo mi notò, e mi prese sotto la sua ala.

Ciro Caruso, il padre di Alessandro Caruso, quello che voi conoscete come Il Rosso.

Feci carriera, ormai ero parte della famiglia, ma desideravo tanto averne una tutta mia.

Avevo diciannove anni, quando andai con altri del clan a Roma per espandere gli affari, ed è lì, durante una serata, che la conobbi.

Angela, la donna più bella che i miei occhi avessero mai visto.

Passai la serata migliore della mia vita, in sua compagnia, il nostro era un amore fuori dalle righe.

Ma soprattutto, un amore proibito, condannati, come Romeo e Giulietta.

I genitori, i tuoi cari nonni, non volevano che la sposassi, non ero alla sua altezza.

Le presentarono quel Flavio: quartieri alti di Roma, famiglia benestante. Tutto ciò che io non ero.

Le proposi di scappare via insieme, ma lei scelse lui.

Il giorno prima delle loro nozze, feci un ultimo tentativo, mi intrufolai in casa sua, e la trovai a piangere.

Mi disse che aspettava un bambino, che le avevo rovinato la vita.

Mi disse di sparire...

Io. Io che l'avevo trattata come una regina, dovevo sparire e lasciare che uno sconosciuto crescesse mio figlio.

Così passavo le giornate a vedere quel pancione crescere, sempre obbligato a nascondermi nell'ombra.

E poi, quella notte di gennaio, sei arrivata tu.

La mia bambina.

Appena vidi Flavio uscire dalla stanza d'ospedale, entrai.

Tua madre dormiva, e tu eri lì.

Ti presi in braccio, Angela si svegliò e non capisco proprio perché si spaventò, iniziò a implorarmi di metterti giù, ma insomma ero il papà, non avrei mai potuto farti del male.

Lessi la targhetta <Miriana Mancini> e non capivo, tua madre mi disse che quella bambina era sua e di Flavio, ma io sapevo che non era così.

Passarono gli anni e tu crescevi sempre meglio, sbocciando come un girasole ad agosto.

Ti ho visto entrare a scuola il tuo primo giorno di ogni anno;

ti ho visto il giorno del diploma;

ti ho visto entrare in accademia.

Ricordi quando a tredici anni ti sbucciasti il ginocchio mentre giravi in bici nel parco? Ricordi quell'uomo che venne a soccorrerti? Ero io.

E anche quando sono finito in prigione, i miei uomini hanno continuato a sorvegliarti, per assicurarsi che tu non corressi mai pericoli.

Quindi io ho sempre vegliato su di te, non Flavio.

Io, mio dolce fiorellino».

Ha detto tutto con una tale tranquillità da lasciarmi spiazzata.

L'uomo alla pizzeria, l'uomo all'autogrill.

Anche l'uomo che era sempre fuori scuola sarà stato uno dei suoi?

Sono inorridita, al pensiero che tutta la mia vita sia stata una bugia.

Mamma, come ha potuto...

«Perché dovrei crederti?» ribatto, pur sapendo, in tutta coscienza, di star intraprendendo una battaglia già persa in partenza.

«Abbiamo gli stessi occhi, la stessa voglia, lo stesso naso, ma devo ammettere che le labbra sono come quelle di tua madre», continua imperterrito. Mi disgusta, ma non posso dissentire.

«Aurelio, d'oggi in poi, lasciami in pace. Non farmi seguire, non ho bisogno della tua protezione, me la cavo benissimo da sola».

«Se vuoi puoi anche chiamarmi papà».

«Tu non sei nessuno per me, non m'interessa ciò che dici. Mio padre è morto, sepolto sotto terra».

«Lo so, la prima volta non si scorda mai», rivolge lo sguardo al soffitto.

«Di che diavolo stai parlando?!»

«Di come ho tolto di mezzo quell'impostore dalla tua vita».

Non respiro, gli occhi bruciano. Sento un fuoco divamparsi nel petto, stringo i denti.

«T-tu...l'hai ucciso tu?». Lui annuisce. «Il mio primo colpo, l'unico fatto con una pistola. Mi ha fatto sentire così bene che ho pensato che farlo a mani nude sarebbe stato ancora più gratificante. Odiavo mio padre per avermi portato via mia madre. Odiavo Flavio per avermi portato via la donna che amavo. Odiavo gli uomini di quella specie, dovevano avere una punizione adeguata, mi capisci?»

«Assassino!» urlo correndo verso le sbarre.

Edoardo mi afferra il bacino, tirandomi indietro, ma sento una forza sovrumana che irrompe nel mio corpo, non riesce a smuovermi.

«Me l'hai portato via!» infilo le mani nella fessura delle sbarre, afferrandolo per la canotta.

«Come lui vi aveva portate via di me, ho pareggiato i conti» risponde in tono fin troppo pacato.

I nostri occhi sono così vicini, e vedo nei suoi il riflesso di me stessa, provando un senso di vergogna, ripudio, orrore.

Io non sono come lui.

Lo lascio andare, riprendendo a respirare, e subito Edo mi allontana il più possibile.

«Confessi di essere il responsabile dell'omicidio degli agenti S.S.I. Flavio Mancini e Mario Scipione?» gli chiede Edoardo.

«Ormai sono qui, cosa c'è peggio di un ergastolo? Non c'è più la pena di morte», scrolla le spalle.

«Cosa ti aveva fatto Mario?» domando tra le lacrime.

«Niente, era lì, non potevo lasciare testimoni», inizia a passeggiare avanti e indietro.

Scuoto la testa, inorridita dall'assenza di empatia di cui è dotato questo essere.

«Basta, non voglio sentire altro».

«Fiorellino mio...»

«Non. Chiamarmi. Così», sono le ultime parole che gli rivolgo, prima di uscire.

«Siamo uguali, Mimmi, ricordalo quando si presenteranno tempi difficili», sono invece le ultime parole che odo e che decido di ignorare con tutte le mie forze, mentre la porta alle nostre spalle si chiude.

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