35. Orgoglioso della donna che sei diventata

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EDOARDO

Arriviamo al Vomero, troviamo l'indirizzo segnato nei fascicoli e ci ritroviamo davanti una palazzina di dieci piani.

Miriana controlla sui citofoni mentre io rimango appoggiato al muro con la sigaretta tra le labbra.

«Eccolo, il cognome dei genitori di Italo. Andiamo, butta quella sigaretta!»

«Fammi finire!»

«Ormai ho bussato», dice nel mentre che appoggia il dito sul pulsante, facendomi alzare gli occhi al cielo.

«Chi è?»

«Signora salve, siamo della-», inizia, ma la interrompo subito mettendomi davanti a lei per potermi avvicinare al citofono.

«Signò buongiorno, scusate il disturbo, siamo vecchi amici di vostro figlio, Italo. Potremmo salire?» chiedo in napoletano.

Silenzio tombale dall'altra parte, ci guardiamo interdetti, ma mentre stiamo per andarcene, sentiamo il rumore dell'apertura del portone.

Entriamo e saliamo le scale, per fortuna è al primo piano.

Appena arriviamo all'ultimo scalino, la porta della casa si apre; una signora sulla cinquantina ci guarda con aria diffidente.

«Buongiorno signò, io sono Emanuele, un amico di vostro figlio, volevamo solo parlarle», esordisco, portandomi una mano sul cuore.

La signora rivolge poi il suo sguardo a Miriana, aspettando che parli.

«Io sono Martina» si presenta. Beh che fantasia.

«Conoscevate Italo?» chiede la donna con una nota evidente di tristezza nella voce.

Annuisco cercando di sfoggiare il mio miglior sguardo compassionevole.

«Accomodatevi», spalanca la porta, lasciandoci entrare.

«Ha una bellissima casa», si complimenta Miriana, guardandosi attorno.

«Grazie, ma voi non siete di qui signorina?» domanda la signora, evidentemente riconoscendo la cadenza nella voce della biondina.

«No lei no, ma io sì, sono cresciuto qui», intervengo subito, facendo appello a tutto il mio accento.

«Mh» annuisce lei, ancora un po' riluttante.

«Volete un caffè?» chiede poi, mentre la seguiamo in cucina.

«Sì grazie, io amaro», rispondo mentre ci accomodiamo al tavolo.

«A Napoli ci diamo del voi, non si usa il lei», sussurro nell'orecchio di Miriana, mentre la signora è intenta a preparare la moka.

«Ah, okay», risponde lei incerta.

«Allora, di che volevate parlare?» domanda la signora mettendo sul fuoco la macchinetta.

«Innanzitutto ci dispiace molto per la vostra perdita, non oso immaginare cosa ha passato la vostra famiglia», inizia Miriana.

«Sono passati quindici anni, come mai non vi ho mai visti?» ci guarda accigliata.

«Gliel'ho detto non abitiamo a Napoli, purtroppo il lavoro ci costringe a restare a Roma», continuo io.

«E che volete sapere mo?» rimane acida nel tono, nel mentre che versa il caffè in delle tazzine bianche, per poi portarle a tavola.

«Noi...» cerco di pensare velocemente a cosa inventare, ma la mia collega mi precede.

«Signora, io so cosa significa perdere qualcuno in queste circostanze, anche mio padre è morto per mano di quelle brutte persone che gestivano gli affari della discoteca dove lavorava vostro figlio. Sono anni che cerco di capirci qualcosa riguardo questa storia, perciò le chiedo: se lei sa qualcosa che potrebbe esserci utile, anche un piccolo dettaglio che le può sembrare insignificante, qualcosa che Italo ha detto o che avete sentito. Qualsiasi dettaglio possa esserci utile a risolvere il caso».

Rimango un attimo sbalordito, è forte la ragazza.

«Mi dispiace signorì, ma io non so niente, Italo non parlava con noi, mandava solo dei soldi a casa. Non ho mai avuto il coraggio di chiedergli nulla. Poi ho visto...» la voce della signora viene spezzata da un singhiozzo. «Ho visto la notizia sul giornale, la mattina dopo, con la sua foto», continua riprendendo fiato, trattenendo a fatica le lacrime.

Miriana poggia teneramente la mano sulla sua, mostrandole un'empatia sincera.

Saliamo in macchina, sconsolati.

«Povera donna, ha scoperto di aver perso il figlio leggendo un giornale», esordisce Miriana in tono triste.

«La vita» sospiro io, girando la chiave nel quadro.

Mentre faccio retromarcia la sento singhiozzare, la guardo e vedo le lacrime rigarle il volto.

«Ehi, che hai?» fermo l'auto.

«Niente», singhiozza guardando fuori dal finestrino.

«Niente non credo proprio», replico, appoggiandole una mano sulla coscia.

Al mio gesto si volta a guardarmi, mostrandomi i suoi occhi colmi di lacrime. Le faccio segno col capo che, se vuole, può parlare. E lei scoppia, come un palloncino gonfiato troppo.

«Mi manca mio padre, quando è morto ho provato a...a...», confessa, appoggiando la sua mano sulla mia.

Resto in silenzio ad osservarla, senza sapere cosa dire, non sono bravo a consolare le persone, ma non insisto per farle terminare la frase, ho capito, e per dimostrarglielo, l'accolgo tra le mie braccia.

«So che sembra stupido, a trentacinque anni, frignare per il papà, ma...»

«Non è affatto stupido», la interrompo subito, con tono deciso.

«Lui era la mia roccia, mi ha insegnato ogni cosa che so, anche a sparare», tira su col naso.

«Si vede che ha fatto un bel lavoro», rifletto ad alta voce.

«Tranne che a cucinare, era completamente negato, quando mamma non c'era andavamo sempre a mangiare fuori», una lieve risata interrompe il suo pianto.

«Ecco da chi hai preso» replico, ridendo a mia volta.

Lei alza il suo sguardo, nella mia direzione, mi guarda seria, e subito penso che ho detto una cazzata, cazzo l'ho detto che non so farle queste cose.

«Cioè volevo dire...»

«Idiota», sorride e mi tira un pugno sul braccio, in modo giocoso.

Uh, menomale.

«Tu da chi hai imparato a cucinare?» chiede rimettendosi composta sul sedile, passandosi le mani sul volto per asciugare le lacrime, separandoci completamente.

«Dalla mia tata, cucinava sempre piatti buonissimi e rimanevo ore in cucina ad ammirarla ai fornelli», sorrido a quel ricordo, quasi mi sembra di sentire l'odore del sugo, dei fritti, della frittata.

«Avevi una tata?»

«Sì, è stata come una zia, poi in realtà faceva tutto lei in casa, i miei erano sempre troppo impegnati a lavoro. Così rimanevamo spesso da soli, e mi ha insegnato tutte le sue ricette».

«Che cosa carina», accenna anche lei un sorriso. Mi volto, scruto ogni tratto del suo viso, e mi viene spontaneo aggiungere una piccola cosa.

«Miriana, sono sicuro che tuo padre sarebbe fiero di te, orgoglioso della donna che sei diventata». La vedo esitare per un momento.

«Ho sentito bene? Mi hai chiamata col mio nome?» chiede quasi divertita.

«Allora! Ho prenotato in un ristorante sul lungomare!» evito di rispondere, rimettendo in moto la macchina.

Direi basta con le questioni sentimentali per oggi.

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