Gola secca

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Un giorno come un altro, nella mia scuola. Tutto era normale, i miei amici mi volevano bene e i professori mi sommergevano di compiti. Ma, quel pomeriggio, sentii dei lamenti provenire dalla presidenza.

— Chissà cosa starà succedendo... — Dissi annoiato tra me e me.

La porta era socchiusa e potei sbirciare dentro. Appena misi l'occhio vicino all'aperture un urlo di ragazza proveniente da quella stanza mi pietrificò. Mi avvicinai meglio per vedere cosa diamine stava succedendo.

Vidi Ruffi, il professore di musica, tirare schiaffi a una ragazza della classe accanto alla mia di cui non mi ricordo il nome.

— Ti scongiuro, lasciami! — Implorava la ragazza.

— No, non posso. Devo fare in modo che tu stia zitta. — Rispose inespressivo l'uomo.

— Ma... non capisco cos'abbia fatto!

— Mi hai visto maneggiare l'occhio di Sara.

— Cosa?... Ma lei è scomparsa... Oh, no! Ti prego, perdonami! Non ne farò parola con nessuno!

L'uomo estrasse un coltello dalla tasca dietro dei jeans e disse: — No. — E, detto questo, affondò il coltello nella gola della ragazza.

La ragazza, ora, aveva gli occhi vitrei e tirava manate all'aria, tentando di respirare. Il professore, dunque, tolse con grazia il coltello spargendo sangue sui suoi vestiti e sulla parete dietro di lui. Poi la prese per i capelli, la alzò e le conficcò il coltello nella pancia e cominciò ad aprirglierla. Man mano che tagliava, le interiora uscivano fuori e cadevano per terra. Prima fuoriuscì lo stomaco, poi toccò all'intestino. Dopodiché il professore fece un gesto inaspettato: allargò il taglio nella pancia con le mani e ci ficcò la testa dentro, cominciando pian piano a divorarla. Non potevo credere ai miei occhi. Quel professore non era cattivo. Era l'uomo più buono che io avessi mai conosciuto. Ma non potevo negare che quello spettacolo era a dir poco delizioso. Qualcosa scattò nella mia testa. So che chi leggerà questa storia dirà che quella cosa che scatta nella testa è un cliché ma non trovo altre parole per descriverlo. Quella cosa che scatta nella testa ti costringe a pensare a cose orribili: massacri, torture, decapitazioni... Non resistetti più alla voglia di uccidere qualcuno. Entrai di prepotenza nella stanza, desideroso di sangue e urla. Il professore, avvertita la mia presenza, tolse immediatamente la faccia dal ventre del cadavere e mi corse incontro. Ma fui più veloce di lui: ne approfittai del fatto che Ruffi aveva la bocca aperta per ficcarci dentro il braccio. Mi risultava impossibile ma ce la feci ugualmente. Andai sempre più in giù, sempre di più, fino a quando il professore non rigurgitò sangue e vomito sul mio braccio. Ruffi rantolò per terra, gettando un'ultima ondata di vomito sanguinolento prima di spirare.

— Evviva! — esclamai. — Ho ucciso il professore!

Feci per andarmene ma, prima di uscire dalla stanza, notai un occhio. Mi chinai su di esso e lo presi in mano. Era un occhio dall'iride azzurra. Me la misi in tasca e me ne andai. Per anni ho tenuto quell'occhio in segreto, senza che nessuno lo trovasse. La vita, per me, andò avanti. Mi trovai una moglie con cui feci dei figli. Mi costruii una vita. L'altro giorno ritrovai la scatolina in legno con dentro l'occhio. Era diventato secco, sembrava quasi un fossile. Cominciai a giocherellarci quando mio figlio entrò nella stanza chiedendomi cos'era quell'oggetto che stavo tenendo in mano.

Inutile dire che gli è toccato lo stesso trattamento che ho fatto al professore Ruffi.

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