La panchina

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La notte è densa di buio e il vento soffia più forte del solito, portandosi dietro i profumi del fiume e una strana carica di elettricità statica. Qualche foglia cade pigramente dai massicci alberi del viale, contrastando con l'asfalto sdrucciolato di quella stradina. In giro non c'è nessuno, le panchine sono vuote e portano i ricordi di quel pomeriggio di inizio autunno: qualche lattina di birra, mozziconi di sigaretta e fazzoletti. Piccoli momenti di vita di qualcuno che ormai sarà al caldo nel proprio letto, o al limite in qualche discoteca del centro, comunque in un posto migliore di quello.

D'un tratto appare qualcuno al bordo della strada, stretto nel suo impermeabile gessato, con le scarpe nere tirate a lucido e gli occhiali spessi. L'uomo ha il volto serio ma rilassato: arriva ad una delle panchine, si siede, e dopo essersi sistemato l'impermeabile si accende una sigaretta. Tira una boccata di quell'aria sporca che riempie la brezza all'improvviso, poi un'altra. Si guarda intorno dando le spalle al fiume e incrociando le braccia al petto, per sopportare il freddo. Sembra quasi sbagliato, così vivo in un posto così quieto.

Gli occhiali riflettono le luci della strada, i lampioni ronzanti che tingono l'armosfera di un arancione artificiale e i semafori con il loro colori alternanti. Da dietro le lenti, un paio di occhi bruni e severi scrutano i dintorni irrequietamente in attesa.

Passano i minuti e forse qualche ora, anche se la notte è talmente sospesa che il tempo è difficile da quantificare. Molti mozziconi si aggiungono a quelli già a terra, prima che una ragazza faccia capolino dall'angolo opposto della strada, andando in direzione della panchina. E' giovane, quasi una bambina, e di certo non dovrebbe trovarsi lì. Il suono secco dei suoi tacchi rimbomba fino alle orecchie dell'uomo che ora la scruta in silenzio, ma senza farsi notare. Finge di concentrarsi sulla sigaretta, ma con la mano nascosta tira fuori una boccetta e un panno bianco di stoffa. Lo imbeve di un liquido verdastro, lo stringe, e continua ad attendere.

La ragazza gli passa davanti, stretta nei jeans attillati e con la borsetta stretta sotto un braccio. E' truccata pesantemente e ha il rossetto sbavato, sulle labbra cadono morbidamente i capelli profumati. Quella fragranza inebria l'uomo, che si sforza di rimanere quieto.

Poi, appena la ragazza le volta le spalle, lui la cinge con violenza da dietro, premendo il panno contro la bocca e il naso. La sente respirare affannosamente ed è un grave errore per lei.

Ora il viso dell'uomo si è trasformato in un ghigno di incontenibile eccitazione, forse odia farlo, ma non riesce più a farne a meno. Come una droga.

La ragazza continua a dimenarsi nonostante il cloroformio, ma non ha importanza. E' piccola e sembra fragile come il cristallo, con quell'uomo che la schiaccia a terra. Viene trascinata di peso dietro ai bassi cespugli sulla riva del fiume, e lì non ha scampo. E' invisibile a chiunque dalla strada o dai palazzi vicini.

Lui la sbatte violentemente per terra e lei batte la testa. Non grida. Lo fissa.

Lui tentenna per un attimo, ma poi si accanisce contro i pantaloni, strappando il bottone per la foga che mette in quell'abuso.

Ma lei non si ribella. Lo fissa.

Lo sguardo dell'uomo è maniacale e carico d'odio. Così è troppo facile. A lui piace sentirsi potente, piace sottomettere. A lui piace la paura negli occhi innocenti.

"E' un peccato che il cloroformio non abbia fatto effetto, sai? Ora dovrò ucciderti, quando avrò finito" sbotta.

Lei rimane tranquilla. Quando sorride, una fila di denti aguzzi brilla sotto la scarsa luce.

Ride.

"Povero stupido. Io non posso morire"

Qualche minuto dopo la ragazza si aggiusta i pantaloni, stringendoli come può, cercando di non far risaltare lo strappo. Si siede sulla panchina e tira fuori uno specchio dalla borsetta. Si sistema il trucco e i capelli. Poi si alza e torna per la sua strada.

Alle sue spalle, l'acqua del fiume è tinta di rosso.

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