~Tre~

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Gabriel

Sin da quando ero un bambino, e ascoltavo le storie dei grandi su quanto mio padre fosse un uomo coraggioso e da ammirare per aver sacrificato la sua vita facendo un lavoro dedicato a salvare gli altri, ho sempre pensato: anche io voglio fare un lavoro che aiuti le persone. Voglio fare del bene. Voglio salvare delle vite.
Osservavo papà tornare a casa con il sorriso, e mi chiedevo cosa mai potesse generare una soddisfazione così pura, estatica, totalizzante.
Un giorno glielo domandai. Avevo dodici anni.
E la sua risposta, si è come marchiata a fuoco dentro di me.
"Sorrido così perché oggi mi sento una bella persona, ogni volta che faccio del bene mi sento una bella persona. Sai, è difficile far si che la tua vita si realizzi proprio come la vuoi, ma io comunque vada, so che non l'ho sprecata se ho aiutato la mia gente".


Sono un ragazzo che prova facilmente una forte empatia verso chi si trova in difficoltà.
Ciò che mi ha spinto a seguire le orme di mio padre, è stato un reale bisogno di trasformare questa mia empatia nella mia forza. Nel mio lavoro.
Non si è trattato affatto di tramandare il distintivo da padre in figlio, come so che pensano in molti.
Quanto mi piacerebbe riuscire a spiegarmi. A farmi capire.
Ma forse ci sono delle sensazioni che sono tue e basta. Non tutto si può condividere per quanto tu possa fidarti di certe persone.
Evidentemente, il perché io abbia scelto di mettermi a servizio dello Stato e della gente della mia città, è una di quelle cose che non si possono spiegare.

🌻🌻🌻

La mia idea di poliziotto, non prevedeva affatto di girare per le strade di San Diego, assicurandomi che nessun adolescente annoiato minacciasse i quartieri popolari, o deturpasse la città.
Ma sono consapevole che questa sarà la mia routine almeno per qualche settimana.
E così non faccio altro che passaggiare, passeggiare e squadrare ragazzini sospetti.
In cinque giorni di turno, non è ancora successo nulla.
Adesso, sbucando in una stradina isolata, mi ritrovo davanti una ragazza minuta, che ha fatto del muro di un palazzo la sua tela.
Un po' mi dispiace quello che sto per fare, ammetto a me stesso che i murales mi sono sempre piaciuti.
E, ad una prima occhiata, questo non è niente male.
Ma come agente in servizio non ho molta scelta.
<<Lo sai che dipingere palazzi pubblici è illegale?>>
La schiena della ragazza si irrigidisce.
Poi lei si volta, tranquilla, con sguardo fiero e per nulla colpevole.
Mi destabilizzo un attimo.
È carina.
E non dovrebbe esserci nulla di strano nel fatto che lo sia.
Ciò che è veramente strano, è che io lo stia notando.
È raro che la mia testa venga attraversata da pensieri simili, e so per certo che questo dipende in gran parte dalla gente da cui sono circondato. Sono tutte belle ragazze, ma di una bellezza così comune e costruita, artificiale, da risultarmi ormai noiosa.
Lei no.
È quanto di più naturale possa esserci in una donna.
Jeans logori e strappati, una canotta consumata dal tempo, i capelli raccolti in una treccia laterale che le sfiora un fianco.
Niente trucco, forse un filo di mascara perché ha delle ciglia lunghissime.
Ad ogni modo, con quei lineamenti quasi esotici, non ne ha bisogno. Il suo viso è perfetto così.
Il mio corpo si riscalda dentro, al suo squadrarmi con interesse e sfrontatezza.
Devo riprendermi. Devo tornare in me.
Sto per aggiungere qualcosa quando la sua voce riempie il silenzio.
<<Dipingere?>> chiede, disgustata dal termine che ho scelto.
Inarco le sopracciglia e alzo le spalle.
<<Quello è molto più che dipingere>> mi spiega, indicando il murales alle sue spalle.
<<E se non ti dispiace, vorrei finirlo>>
Eh? Fa sul serio? Mi sa che non ha afferrato il punto.
<<Credo che non ci siamo capiti>> le faccio notare cauto, avvicinandomi di un passo.
Ci sono delle regole per il modo in cui dovrei parlare e relazionarmi con lei, ma ora non riesco a ricordarne una.
Il mio cervello reagisce d'istinto, in risposta alle sue mosse.
<<Spiegami allora>> ribatte scettica.
D'accordo.
<<Ti ho trovata a fare qualcosa che non dovresti, e quindi ti porterò in centrale dove chiameremo i tuoi genitori. Sono un poliziotto>>
Le mostro il distintivo.
<<Sicuro? Non sei troppo giovane? L'hai finita la scuola?>>
Ahi.
So che mi sta solo provocando. So di sembrare anche più grande dell'età che ho. Eppure che mi parli così mi da fastidio.
<<Ho vent'anni>> chiarisco.
Subito dopo mi maledico, insomma non dovrei mettermi a discutere, non è questa la procedura.
Perché non mi lascia indifferente com'è normale che sia?
La vedo sospirare e cercare il mio sguardo.
<<Scusa, ok? Niente di personale, ce l'ho con la vostra razza. Con i poliziotti intendo>>
Ah.
<<Tu inizi a starmi perfino simpatico>>
<<Perché?>> chiedo di getto.
<<Non ti senti superiore. Sei uno di quelli buoni. Sono Alex>>
Mi porge la mano, e contro ogni logica, la stringo.
<<Gabriel>>
Ma che sto facendo?
Mi riprendo, e invece di lasciarle la mano, rafforzo la presa in una stretta da cui non può scappare.
<<Ora però devi salire in macchina con me, Alex>>
I suoi occhi acquistano di nuovo una sfumatura arrabbiata alle mie parole.
<<E se non volessi?>> mi sfida.
Non ho il tempo di ribattere che con un movimento repentino del polso, mi piega il braccio e si libera dalla mia presa.
E inizia a correre.
Ma che diavolo?
Mi precipito dietro di lei, e la seguo mentre si infila nei vicoli più stretti.
Svolto nella quarta stradina e... è bloccata. Da un cancello.
Che lei sta scalando.
Sbatto le palpebre scioccato, ed è già dall'altro lato.
Non corre più, si ferma, incrocia di nuovo le braccia e mi fissa.
Studio la situazione, ma lei precede i miei pensieri.
<<Anche se provassi a scalare questo cancello, io sarei già troppo lontana>> mi fa notare.
Il suo tono non è né soddisfatto né di scherno. Lo dice come fosse un dato di fatto.
È un dato di fatto. Ha ragione.
Con due passi rapidi arrivo a toccare le sbarre del cancello e ad afferrarle le mani.
Perché è rimasta così vicina alle sbarre invece di allontanarsi?
Nonostante sia in qualche modo bloccata dalla mia presa, resta tranquilla.
<<E ora?>> chiede con un sorrisetto divertito.
Cambia la posizione delle nostre mani e intreccia le dita alle mie.
Che sta facendo?
Il mio sguardo scivola sulla pelle abbronzata di lei, in contrasto con la mia, molto più chiara.
Già, e ora?
La starò pure tenendo per le mani ma con questo maledetto cancello a dividerci, non posso fare altro.
<<Secondo me hai due possibilità>> continua. <<O mi lasci andare, o restiamo così per tutto il giorno>>
<<E se tu saltassi di nuovo da questo lato invece?>> le propongo, poco convinto.
<<No, non lo farò. Lasciami andare Gabriel. Non valgo così tanto>>
<<E chi lo dice?>>
<<Praticamente tutti>> mi sembra di sentirla mormorare.
Che significa?
<<Facciamo un patto. Io ti prometto che non tocchero' più i muri della città, e tu mi lasci andare>>
Continuo a guardarla, a studiarla, senza dire niente.
Be' stava solo dipingendo un muro, no? Non sembra di certo pericolosa.
Anche se qualcosa di pericoloso in lei c'è eccome. Non nel senso classico però.
Sospiro e lentamente sciolgo l'intreccio delle nostre dita.
<<Non farlo più>> la ammonisco.
Sorride e mi fa l'occhiolino.
<<Sta tranquillo>>
Comincia ad allontanarsi, camminando all'indietro, senza staccare gli occhi da me.
<<Spera che non ti incontri ancora. Non mi sfuggiresti una seconda volta>> dico convinto.
<<A presto Gabriel>> mi urla in risposta, prima di voltarsi e correre via.
La guardo finché non scompare.
Bene. Il mio primo vero compito da risolvere, e me lo sono lasciato sfuggire da sotto al naso.

Più tardi quella sera, mentre faccio un giro in moto per rilassarmi, passo dal palazzo dove ho trovato Alex.
Il murales è finito.
Ci avrei scommesso.
Accanto alla bambina che dorme, è spuntato un lupo bianco che la veglia.
È stupendo.
Resto ancora per qualche minuto, e invece di sentirmi preso in giro per il fatto che quella ragazza sia tornata a finire il suo lavoro poco dopo avermi promesso di non farlo, provo sollievo.
Quello non è vandalismo.
È un opera d'arte.

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