45. Ad armi pari

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Non appena Gabriel chiuse il messaggio Iride si accorse di aver speso la sua ultima dracma. Poco male, non sapeva quando avrebbe avuto di nuovo tempo di chiamare sua mamma.

Si sentiva tremendamente in colpa. Sua madre aveva acconsentito a lasciarlo lì perchè fosse al sicuro...e ora era stato costretto a dirle che sarebbe dovuto andare in guerra. Aveva provato a spiegarle che quando si tratta del fato non è così semplice esimersi dalle responsabilità, che il destino comunque trova un modo o un altro per farti fare quello che devi fare! Marion era stata però irremovibile, il viso pallido contratto in una maschera inespressiva dietro la quale si celava un mare di lacrime rabbiose e deluse. Non era stata una chiamata piacevole e ora che si era spento anche il debole chiarore del messaggio Iride la cabina numero uno sembrava più cupa che mai.

Nonostante fosse ancora molto presto la mattina il signor Grace era già sveglio, pronto a partire assieme a sua moglie. I saluti tra lui e Gabriel erano stati molto impacciati ma sinceri. Gli sarebbe mancato avere qualcuno nella cabina con lui.

Tutto stava cambiando. Era appena riuscito ad abituarsi e tutto stava cambiando di nuovo. Maledisse la sua natura semidivina e con rabbia recuperò la felpa abbandonata sul letto. Avrebbe approfittato della solitudine se proprio non poteva fare nulla per combatterla. Di sicuro il campo d'allenamento sarebbe stato vuoto.

Nonostante fosse estate, l'aria spirava dal mare, frizzante e fresca. Il cielo invece mostrava tutta la sua meraviglia, sfoggiando colori che di giorno era impossibile vedere. L'azzurro era tenue e intaccato dal giallo intenso del sole sorto da solo qualche ora. La luce illuminava ogni cosa e le ombre sul terreno erano definite ovunque come se l'artista del mondo non avesse ancora fatto in tempo a sfumare tutto per bene. Era uno spettacolo di bellezza quotidiana che Gabriel apprezzò per la prima volta da quando era giunto al Campo. Le cose si apprezzano quando le si sta per perdere disse una voce da un angolo del suo cervello. A chiunque appartenesse, quella voce aveva ragione. Incamminandosi verso l'armeria si concesse di guardare di sfuggita verso il punto più azzurro che potesse trovare della volta celeste, immaginando che dietro quella botola colorata ci fossero le divinità di cui tanto tutti parlavano e di cui erano figli tutti loro. Nelle lezioni aveva sentito dire che gli dei generavano i semidei perché il mondo aveva spesso bisogno di eroi che lo salvassero. Era come essere nell'esercito solo che al posto di combattere contro cose anche solo di forma umana si era inseguiti da mostri enormi e invisibili a tutti per tutto il corso della propria vita. Ma non erano indifesi: nel periodo al Campo si era reso conto sempre più come i suoi riflessi fossero sempre vigili e attivi, di come gli piacesse sempre di più tirare di spada. Per quanto riguarda i poteri speciali di batteria umana, non era ancora riuscito a evocare dei fulmini come la prima volta ma tutti gli avevano assicurato che era tutta una questione emozionale le prime volte, soprattutto Marissa, l'unica che avesse dei poteri palesi che era stata disposta a parlarne con lui. In quel momento aveva anche realizzato come fosse forse una fortuna avere un'arma così potente con cui difendere gli altri quando molti altri potevano contare sul proprio corpo... tipo Iris, anche se probabilmente lei non aveva bisogno di armi quando poteva anticipare le mosse del proprio avversario. Vedendo l'armeria spuntare dietro un angolo si bloccò. Non era l'unico ad aver pensato di allenarsi la mattina. In mezzo allo spiazzo che serviva da arena stava un altro ragazzo con la maglia arancione del Campo, un altro ragazzo che conosceva bene, seduto per terra con un lungo bastone appoggiato alle ginocchia.


La storia dietro il bastone che Jasper stava analizzando ci porta indietro di una mezza giornata nella vita del figlio di Ade, più precisamente alla sera prima, quando la tristezza aveva avuto la meglio anche sulle battute di Brice. Erano rimasti in riva al laghetto delle canoe a parlare fino a che l'aria non aveva iniziato a diventare fresca e l'umore troppo pesante. Entrambi sapevano che le parole di gioia e le battute erano solo una lieve maschera a tutta la preoccupazione che si portavano dentro. Per questo motivo quando il silenzio aveva superato i cinque minuti si erano semplicemente dati una pacca sulla spalla e una buonanotte molto veloce, prima di ritirarsi verso le proprie cabine. Solo che ad attendere Jasper non c'era nessuno, solo oscurità e un senso di angosciante solitudine. Di corsa aveva aperto la finestra più vicina al suo letto sperando che l'aria fuori fosse più calda del gelo che sembrava regnare perennemente nella cabina tredici. Una zaffata di aria tiepida e vellutata lo investì in pieno viso. Non faceva davvero così tanto caldo fuori ma era dal momento del riconoscimento divino che la sua temperatura corporea non era più salita. Il freddo che regnava nella cabina gli si attaccava sempre più addosso di giorno in giorno, come se l'aldilà stesse marcando quello che gli apparteneva di diritto. Ah, la morte. Quanto è ironico pensare alla morte prima di partire per una guerra. Non sono forse tutti gli esseri umani ad appartenervi? In fondo l'unica cosa certa nella vita è proprio la morte. Le torce verdi in fondo allo stanzone, atte ad illuminare l'altare di Ade, sembrarono avere un guizzo ma Jasper fu più che certo che fosse solo la sua immaginazione. Non voleva partire, non era un eroe e non voleva esserlo. Non così per lo meno.

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