48. Fratelli d'arcobaleno

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La stanza in cui lo avevano rinchiuso era una specie di sottoscala. Sì, uno di quei sottoscala che puzzano di muffa e polvere anche dopo averli passati con olio di gomito e alcol etilico 99%. Era un cubicolo di tre metri quadri senza finestre, la cui unica apertura era una porticina da cui filtravano due o tre raggi di luce per qualche ora al giorno. Gli avevano legato le mani, all'inizio. Poi avevano capito che era prettamente innocuo e lo avevano lasciato libero di aggirarsi per quella gabbia dalle pareti di pietra. Sapevano che era incapace di fuggire. E Nigel lo sapeva da sé, vergognandosene. Aveva ormai perso il conto dei giorni che erano trascorsi - una settimana? Un mese? Un anno? - e aveva inventato una nuova unità di misura per scandire il tempo: il rintocco del pasto. I giorni erano composti da due rintocchi e tra un rintocco all'altro c'era solo un baratro di pensieri via via più negativi, che si azzeravano a ogni nuovo pasto. Forse stava impazzendo, ma Nigel non ci poteva fare molto. Non parlava con nessuno da quasi due settimane e lentamente il suo cervello, infarcito di pensieri infantili e leggeri come ali di insetto, aveva iniziato a deragliare. A volte si era ritrovato a borbottare con sé stesso, altre volte gesticolava con una persona invisibile al suo fianco. Continuava a ripetersi 'È solo un incubo' e si tirava dei pizzicotti da far paura. Doveva essere un ben strano incubo, se era quello che stava vivendo: al posto di svanire quando apriva gli occhi al mattino, questo ricominciava da capo. E ancora, e ancora.

Poi, al rintocco per il primo pasto del giorno, qualcosa cambiò.

Per la prima volta da chissà quanti rintocchi, la porta si aprì al posto della minuscola apertura da cui il popolo di soldati gli faceva avere un'acquosa minestra di tuberi esotici e un frutto a pezzi. Ferma sulla soglia si stagliò la nera figura di uno di quei morti viventi. Nigel si coprì istintivamente gli occhi con una mano, non essendo più abituato alla luce diretta del sole, ma quando si rese conto di quello che stava succedendo si ritirò nell'angolo più buio della prigione, come un topo spaventato. Iniziò a tremare, senza riuscire a controllare i propri nervi, mentre il losco figuro si faceva avanti, contornato da un'aura di raggi dorati. Nella testa di Nigel improvvisamente comparve la figura di sua madre, Iride, la messaggera degli dei. In tutta la sua breve e vuota vita il ragazzino aveva visto una sola volta la sua divina genitrice: non gli era più capitato di sentirsi pieno come nel momento di incontro con lei. Era stata una visione di potere, dolcezza e amore, aveva fatto traboccare il cuore di vetro di Nigel di gioia, aveva applicato, sull'inizio della crepa che alla fine avrebbe creato la frattura fra il ragazzino e il mondo, una pomata lenitiva. Nigel non si sarebbe mai dimenticato il suo sorriso: l'unico che l'avesse mai fatto sentire accettato senza un pagamento in ritorno.

"Mamma?" Farfugliò, rivolto alla nera figura avanzante "Mamma, sei venuta a prendermi?"

Non appena ebbe pronunciato quelle parole confuse, si rese conto che mancava qualcosa in quello che stava guardando: le ali. Sua madre aveva delle bellissime ali, sottili come carta velina. Comprese quello ancora prima che i suoi occhi si abituassero alla luce e riconoscessero nella figura quella di uno dei soldati più giovani della cricca che abitava entro le mura di New Troy. Quello particolarmente trasparente che, sul treno che li aveva portato dove ora si trovavano, gli aveva raccontato la loro storia. Indossava ancora la divisa grigia con cui l'aveva conosciuto - Nigel aveva i suoi dubbi sul fatto che se la togliessero ogni tanto - e la luce attraversava il suo cranio, come se fosse stato di cristallo. Capelli biondicci, secchi come la paglia, si era incollati da chissà quanto tempo alla testa di quel giovanotto di non più di ventidue anni.

La delusione di non vedere la madre quasi uccise Nigel. Si afflosciò contro le pietre della parete e fissò con occhi vacui, divenuti improvvisamente grigi e acquosi come pozzanghere, il nuovo venuto, improvvisamente disinteressato riguardo il motivo della sua visita. L'altro si fece più vicino, prima di schiarirsi la gola e dire: "Stanno arrivando."

Il ragazzo non ebbe alcuna reazione. L'uomo, palesemente sulle spine, ribadì: "I tuoi compagni. Stanno arrivando."

"Perché?" Domandò Nigel, tornando a connettere, almeno in parte, i pensieri "Cosa vuol dire?"

"Tra poco saremo liberi." Affermò il giovane, senza alcuna emozione particolare nella voce.

"Chi?"

"Noi."

Lui non capì a chi si stesse riferendo, ma non indagò oltre. Non gli interessava. Fece per raddrizzarsi, ma scivolò sulla sabbiolina del pavimento e il palmo della sua mano sinistra sfregò duramente contro una delle pietre della parete. Nigel lanciò un gremito di dolore e si prese il braccio, improvvisamente risvegliato dal dolore. Un taglio lungo e stretto si apriva dall'indice all'attaccatura del polso. Piccole gocce di sangue iniziarono a fiorire come piccoli e umidi boccioli dalla sua pelle. Fissò il danno autoprocuratosi e, come il sangue, anche lacrime iniziarono velocemente a bagnargli le ciglia.

Emise un singhiozzo, strizzando gli occhi e serrando duramente le dita attorno al polso, nel maldestro tentativo di fermare il sangue e il dolore, ma trasalì violentemente quando percepì un'aura fredda e dita gelide sfiorargli la carne. Fece per sfuggire al contatto, ma il soldato in grigio lo trattenne davanti a sé e disse: "Non devi fare così."

Sotto gli occhi lacrimanti e stupiti del ragazzino, estrasse dal taschino scucito della divisa a collo alto un fazzolettino ancora incredibilmente bianco e lo avvolse attorno alla ferita superficiale sulla mano del semidio. Nigel non poté fare a meno che stare in silenzio e osservare il processo, sbigottito e quasi inconsciamente commosso per il gesto gentile del soldato.

"Tra poco sarà tutto finito." Gli disse, quando ebbe terminato. Alzò gli occhi negli occhi di Nigel e per la prima volta il signorino Bluebell poté notare che, nonostante la trasparenza, riusciva ancora a vedere il colore delle iridi. E sotto il suo sguardo, il colore di quelle del giovane sudista variarono dal viola all'azzurro.

Capì subito che cosa stava guardando. Fece per aprire la bocca, dire qualcosa di importante e adeguato alla scoperta di avere un fratello vecchio di quasi duecento anni... ma non seppe dire altro che: "Grazie."

Il soldato sorrise, mostrando tutti i denti a disposizione, dopodiché si allontanò di un passo, lasciò le mani di Nigel e come era entrato, così uscì. La porta si richiuse e le tenebre tornarono a tendersi sul figlio di Iride. Solo in quel momento si accorse del piatto di carne arrosto che il giovane uomo gli aveva portato. Stavano davvero festeggiando qualcosa.


Heilà, AKEI? Come butta? Non c'è male, non trovate? Siamo quasi alla resa dei conti! Avete formulato qualche ipotesi su quello che accadrà? Fateci sapere!

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