57. Come non fossimo mai esistiti

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Nelle fiamme tutta la coscienza di essere esistiti in un qualche punto del tempo si disperse per una manciata di secondi. Le file più lontane ebbero la fortuna di vedere solamente un grande lampo di luce e poi una palla di fuoco arancione crescere come un frutto maturo in prima linea. La cosa che però non videro furono tutti quelli che erano vicini, troppo vicini a quel fiori infuocato, che divorò in pochi millesimi di secondo sia nemici che amici. Il calore si fece insopportabile in fretta, prima che le persone attorno a Robert potessero in un qualche modo correre via. Fortunatamente non era molte. Sfortunatamente erano.
Le ceneri di Scarlett si erano in fretta bruciate, sollevando fiammate dorate, azzurrastre, violacee e verdastre, colorando l'aria con uno spettacolo pirotecnico dal retrogusto amaro. Il dolore che lo stava straziando dall'interno aveva trovato la via al serbatoio delle sostanze infiammabili che dentro il ragazzo era nascosto da qualche parte, facendo esplodere le fiamme senza che lui potesse controllarle.
Sia si gettò immediatamente a terre premendo la faccia contro la terra impastata di sangue e coprendosi la testa con lo scudo, il quale divenne rovente contro il suo braccio in pochi secondi. Sentì le fiamme ruggire come animali feroci feriti sopra di sé, bruciandole le gambe e la schiena talmente tanto che poté sentire puzza di bruciato provenire dalla sua stessa pelle assieme a ondate di dolore acuto. Se lei, figlia di Efesto, abituata al fuoco, sentiva così tanto dolore, non osò immaginare gli altri. Avrebbe voluto alzare la testa e guardare come stava gli altri ma non riusciva a capire se il ruggito nelle sue orecchie era il sangue che correva impazzito per l'agitazione o se erano le lingue di fuoco che correvano ancora. Il dolore alla pelle era persistente, non dava nessuna indicazione. Solo dopo cinque interminabili minuti osò alzare la testa da sotto lo scudo, praticamente attaccato al braccio ormai, e guardare la desolazione che circondava Robert, in ginocchio, piegato su se stesso con le braccia stette al petto nell'ultimo abbraccio che aveva voluto dare a Scarlett. Attorno a lui un cerchio di terra bruciata costellata da parti di armatura bruciacchiate e vestiti: era come se i fantasmi si fossero sciolti, avevano fatto la stessa fine che avrebbe fatto un cumulo di neve su un tetto arroventato. In mezzo a questi rottami di vita vissuta stavano anche otto semidei e semidee, accasciati a terra, riversi e immobili. Le loro armature erano annerite come la sua, solo che non se ne era accorta. Il suo istinto di sorella la portò a correre verso Robert prima di tutto, controllare che lui stesse bene. Avvicinandosi, però, notò che le braccia erano ricoperte di bolle bianche, come se per una volta, il fuoco avesse scottato anche lui. Provò a toccarlo ma le toccò ritrarsi immediatamente. Il ragazzo scottava come un ferro arroventato. Scottava, bruciava e piangeva lacrime così calde che fumavano lungo il percorso verso terra.
Non prenderai il tè con i mostri.
Li aveva voluti vedere bruciare tutti, dal primo all'ultimo. Il mondo intero sarebbe dovuto ridursi a un cumulo di cenere dorata, come era toccato a Scarlett. E invece erano ancora tutti lì e, più vicina che mai, era la sua coscienza. Osò guardarsi attorno e vide ciò che aveva fatto e se ne dispiacque. Jack era a pochi metri di distanza, privo di sensi, la carne viva esposta su entrambe le gambe. Altri erano nelle sue stesse condizioni: otto in tutto.
Che cosa hai fatto?
Aveva iniziato a piangere, sperando che fosse tutto un sogno. Ma i sogni li fanno i bambini, e in quel momento Robert non era più un bambino. Aveva rischiato di ucciderli semplicemente perdendo il controllo. Non sarebbe mai dovuto accadere, non sarebbe mai successo se non avesse iniziato la sfida con Scarlett. Nessuno si sarebbe fatto male e lei sarebbe ancora stata lì. Questi pensieri divennero così pesanti nella sua testa che ebbe l'impressione di non riuscire più a tenerla dritta. La raccolse tra le mani, come se non fosse più nemmeno sua e pianse ancora di più. Il capannello di gente attorno a loro nel frattempo aumentava sempre di più. All'inizio erano state le seconde file, abbagliate, bruciacchiate ma per lo più illese, poi erano arrivato i nemici, i quali però avevano saggiamente deciso di ritirarsi a file compatte. Solo più tardi tutti avrebbero capito che non era trattato di paura, ma che il sole era transitato in cielo per una spanna non indifferente e che, come tutte le cose in antica Grecia, anche la fine di una battaglia aveva il suo orario.

In mezzo al campo di battaglia, come un'erbaccia o un pezzo di armatura lasciato in giro, stava Iris. Seduta a gambe incrociate. La ghiaia e la sabbia e la terra le imbrattavano i pantaloni della tuta, il pettorale dell'armatura le fendeva le spalle con il suo peso, ma ben più pesanti erano i pensieri che le affollavano il cuore e il cervello. I suoi occhi grigi e inquieti ritrovavano se stessi nelle porte enormi e lucide di New Troy. Le avevano detto di non sedersi così vicino alla fortezza nemica, ma ormai la battaglia era finita e lei sapeva che non sarebbero più usciti fino al giorno dopo, all'ora del nuovo scontro, alla cui sola idea le tremavano le gambe. Avevano perso il primo scontro, senza nessuna perdita semidivina. Un'unica perdita divina.
Si era rigiurata di non piangere ma in quel momento, complice la polvere, il caldo, la stanchezza e il lutto che ancora era fresco nell'aria, Iris iniziò a piangere mugolando come una bambina.
Le lacrime all'inizio furono un balsamo, uno sfogo per la sua giovane anima ferita, dopo qualche minuto però queste iniziarono a bruciare come sale su un taglio aperto: quello del suo orgoglio. C'era qualcosa che le sfuggiva e in nessun modo riusciva a togliersi dalla testa che se avesse capito prima quello che non stava capendo, nessun sacrificio sarebbe stato necessario. Eppure una parte del suo cervello sapeva benissimo che non era colpa sua se Scarlett era morta. Premendosi le mani sulle tempie tentò di fermare i rabbiosi singhiozzi che le squassavano il petto, avrebbe voluto cavarsi gli occhi ma allo stesso tempo non voleva. Non voleva fare come Rob che, dopo essere stato portato di corsa alla tenda della cabina di Apollo, si era rifutato di parlare con chiunque. Non poteva dimettersi dalla battaglia. Il suo cervello lavorava così instancabilmente che le facevano male le tempie... o forse era la luce, il piangere troppo, il fuoco della giornata. Troppo di tante, troppe cose, troppe per un corpo così piccolo e un cervello così grande. Alzando gli occhi vide le porte lucide. Riflessa, sulla superficie polverosa, poteva intravedersi come una macchia arancio, nera e marrone. Un'ombra di se stessa.
Come avrebbero fatto? Come avrebbero fatto senza Scarlett? Senza Robert a guidare l'assalto? Senza Jack? Come avrebbero fatto a sfondare le difese senza I loro migliori combattenti? Alle sue spalle correvano veloci I suoi dell'accampamento in subbuglio: Sue che abbaiava ordini, i figli del lungi saettante impegnati a curare feriti, i figli di atena intenti a pensare. Tutti loro, come avrebbero fatto tutti loro?
Tutti loro.
All'improvviso si rese conto che quelle erano parole bellissime e che, se desiderava che quel tutti comprendesse ancora tutte le persone che c'erano lì, doveva pensare di più, superare se stessa e trovare al soluzione che sicuramente esisteva. Ma non l'avrebbe fatto da sola, no. Non doveva fare tutto da sola, perchè come lei stessa aveva detto a Gabriel una delle prime volte che l'aveva incontrato: nessun semidio è solo.
Jasper la vide alzarsi in piedi da dove si era seduta in mezzo al campo di battaglia e iniziare a correre di nuovo verso l'accampamento. Gli doleva tutto: le braccia, le gambe, la testa, gli occhi e addirittura le orecchie...e lei aveva la forza di correre. Già si stupiva che dopo tutti gli avvenimenti riuscisse ancora a pensare. La battaglia era stata dura: avevano perso Scarlett, Jack era in infermeria ancora privo di sensi, Robert aveva avuto la bella idea di esplodere più o meno e Jazlynn stava ora seduta di fronte a lui, intenta a bere acqua ghiacciata e a stringersi una fasciatura. Era svenuta dopo l'esplosione di Robert e causa di uno scudo ricevuto troppo forte in testa. Sembrava tranquilla, come se non ricordasse la follia che pareva averla colta mentre combatteva. 

"Cosa guardi?" Chiese Gabriel, spuntando da dietro una tenda, senza più armatura ma con ancora la spada al fianco. Jasper si girò di scatto. "Iris, sta tornando. Spero abbia avuto un'idea."

"Conoscendola, probabilmente sì."

"Lo spero vivamente. Oggi è stato un disastro."

"Ma siamo ancora tutti vivi."

Jazlynn tirò su col naso. "Non tutti." 

Nessuno osò dire niente in proposto e Jazlynn iniziò a piangere da sola. Jasper avrebbe voluto dire qualcosa ma tacque, avrebbe di sicuro detto la cosa sbagliata. Infilzando la lancia a terra, si sedette in mezzo a Gab e Jaz, guardando in direzione della cittadella fortificata e verso la landa desolata che si stagliava prima ci essa. Solo quel giorno avevano corso su quella terra mille e mille passi e ora, solo poche ore dopo, sembrava che non fossero mai esistiti. 

La Seconda IliadeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora