77. Pallidi semidei e fuochi fatui

227 29 7
                                    

Nella notte afosa e priva di stelle si accesero fuochi timidi e poco vivaci.

Qual è il colore del fuoco? Oh, ne esistono così tanti. C'è un intero arcobaleno all'interno delle fiamme. Il rosa tenue di un fiore di lapilli, il rosso sangue del ciocco che urla. Il bianco dei grandi calori e il celeste delle stelle vitali. C'è il verde del bario e il blu del cloruro di rame. Fuochi d'artificio! Una gamma di sfumature che qualsiasi pavone narcisista invidierebbe. Esiste qualcosa di più ammaliante del sensuale volo delle farfalle di fiamma? Nei grandi roghi si nascondono varani infuocati e la loro lingua guizza selvaggia annusando l'aria, predatoria. Il fuoco è vivo. Il fuoco è uno zingaro che balla inebriato dall'oppio e dal laudano, una menade ubriaca alla ricerca di Orfeo, un Licaone lupesco reso pazzo dall'idrofobia. Il fuoco vive: danza, si nutre, ingoia vive le sue prede e le consuma fino all'osso, dorme come un infante in un lettino di cenere e braci.

Ma non c'era nulla di tutto questo nei fuochi timidi e poco vivaci accesi nella notte afosa e priva di stelle. Erano fiacchi, tremolanti, febbricitanti. Non avevano voglia di bruciare, nemmeno di crepitare. Erano smorti e il loro colore si rifletteva sui visi altrettanto pallidi dei giovani semidei, raccolti in capannelli silenziosi in religiosa e nauseante attesa. Cosa si aspettava? Nulla. Forse non più. La speranza era scemata velocemente, dopo aver letto le lettere di bronzo poste all'ingresso del naos del Palladio. Prima c'era stata incredulità e orrore, ma ben presto la consapevolezza aveva avviluppato il cuore di tutti e, uno a uno, erano crollati. C'erano stati pianti, litigi, urla e disperazione. Era stato strano e aveva fatto paura a chi era riuscito a mantenere la calma, ma ancora più terribile era stato ciò che era successo dopo.

Il silenzio era calato. Ma non era un silenzio normale, no no. Siete mai entrati in una libreria polverosa? Una libreria piena di ragnatele e grumi di polvere. Sì, grumi: quella polvere collosa, appiccicaticcia, nera, che si attacca alle dita e ai vestiti e più se la si strofina di dosso, più entra nelle fibre. Questa era la consistenza del silenzio dei semidei. Un silenzio apatico ma resistente, che aveva tolto la parola, la voglia di discutere, di cercare soluzioni, perfino di bisticciare a ognuno dei presenti.

Solo Brice sembrava, almeno per un poco, immune alle infide ragnatele di quel mutismo. Si era ritirato nei pressi di uno dei fuocherelli più riparati e distanti, perché gli altri gli davano fastidio. Solo due persone erano con lui: Jasper, che aveva ormai preso sonno dopo una giornata stressante e un duro litigio con Jazlynn, e Shoshanah, che come al solito non riusciva a prendere sonno e fissava le fiamme con uno sguardo freddo e indecifrabile.

Fabrice aveva uno stormo di pensieri agitati in testa, ma quando cercava di afferrarne uno, lo sciame si arrabbiava e si chiudeva ronzando attorno a lui. Era impossibile capire da che parte svolgere la matassa, ma era proprio quel tarlo a mantenere la mente del ragazzino così sveglia. Non riusciva ad arrendersi di fronte a quella che sembrava l'ineluttabile sorte di tutti loro. Divenire abitanti di New Troy? Sarebbe stato peggio che morire! Non solo avrebbero passato secoli e secoli in quel posto privo di attrattive, ma un giorno sarebbero stati i fautori della sfortuna di un altro gruppo di ignari e sfortunati semidei. Forse era proprio questa la cosa che turbava di più il signorino White. La jella gli aveva così tanto carezzato la fronte che l'ultima cosa che desiderava era rivedere in altri il suo stesso dolore. Maledetta cittadella maledetta.

"Mi ha allevato come un animale."

Brice trasalì colto di sorpresa. Alzò gli occhi grigi e incrociò quelli color ametista di Sho. Il fuoco pigro lasciava sul suo viso un'ombra spaventosa, donandole un'aria vagamente malata. La macchia purpurea sembrava sangue rappreso e Shoshanah sembrava aver già assunto il pallore degli abitanti della cittadella. 

"Cosa?"

"Mi ha allevato come un animale."

Fabrice non capì immediatamente. Rimase silente, cercando di cogliere il significato di quella criptica frase. Alla fine abbassò gli occhi e con un sospiro rispose: "Lo sai come funziona. Il Destino è un dio più forte anche di Zeus."

Shoshanah scosse la testa, come se lei stessa fosse scossa da un brivido.

"Sì, Shosh." Insistette Brice. "Non avrebbe potuto fare nulla per te."

"Non ha voluto."

"Non ha potuto."

Le mani della ragazzina le tremavano in grembo e lentamente si chiusero in piccoli pugni paffuti. Fabrice pensò che sarebbe esplosa in qualche scoppio di rabbia più unico che raro, ma quello che Shoshanah fece fu piangere. Iniziò in silenzio e continuò allo stesso modo. L'amico notò semplicemente grosse lacrime traslucide scivolarle sulle lacrime e gettarsi senza frenare sulle sue mani.

"È colpa mia."

"Non è colpa di nessuno."

"È colpa mia, Brice. Ho avuto io l'idea di come entrare qui. È colpa mia."

Fabrice osservò in silenzio la figlia di Dioniso. Si conoscevano da così tanto tempo che non ebbe bisogno di sentirsi in imbarazzo o di innervosirsi davanti a quella reazione. Sarebbe stato inutile parlare: avrebbe rischiato di rompere l'incanto di un'emozione.

Preferì alzarsi, con le gambe formicolanti e il bisogno di muoversi, forse fuggire. Girò attorno al fuoco, si inginocchiò davanti alla ragazza e la strinse in un breve abbraccio. Shoshanah non rispose a quella stretta, strangolata com'era dai singhiozzi e dal senso di colpa e Brice si rialzò, si allontanò dal cerchio di luce delle fiamme e quando fu sufficientemente distante da tutto e tutti, si mise a correre. Lo stormo di pensieri nella sua testa aveva iniziato a produrre un rumore assordante, sconvolgente. Brice non riusciva a liberarsi di quella sensazione di oppressione, perciò decise di assecondarla. Come un continuo trillo di sveglia, seguì la strada che la sensazione gli tracciava davanti. Brancolò nell'oscurità, certo solo che quel lancinante fastidio si sarebbe placato solo trovata la sua fonte.

Fu così che finì dinnanzi alle porte particolari del luogo sacro in cui era rinchiuso l'effige che avrebbe decretato la loro rovina. Brice deglutì a fatica, ma non si lasciò fermare: socchiuse uno dei battenti e si infilò nel pertugio, senza essere preparato alla visione che lo attendeva.

Il Palladio scintillava di bianco candido e d'oro antico in una nube di luce lattiginosa, in cui piccoli granelli di polvere si muovevano lenti come meduse nelle acque profonde. Brice fissò quella che era l'immagine più famosa e più temuta della dea che gli aveva dato la vita e per l'ennesima volta da quando era nato si chiese perché mai l'avesse fatto. Aveva davvero trovato un uomo che l'avesse sedotta a tal punto da concedergli un bambino semidio? No, impossibile. Non era andata così, su questo Brice era più che certo. La sua famiglia non sarebbe stata, altrimenti, un orfanotrofio tra i più poveri. Ci doveva essere altro, molto altro.

E forse quell'altro l'aveva appena trascinato lì, in quel luogo maledetto, alla ricerca di un modo per far ordine tra i suoi pensieri. Senza capire per quale preciso motivo, Fabrice ruotò su sé stesso e si trovò a fronteggiare l'incisione in bronzo della minaccia ai profanatori della statua. I suoi occhi grigi, pur essendo presbite, riuscirono a leggere perfettamente le lettere che formavano quella funesta filastrocca. La rilessero una, due, tre volte. E ancora e ancora. Fabrice aveva intenzione di consumarsi gli occhi su quelle parole. Nel giro di cinque minuti l'aveva imparata a memoria e in quel momento nella sua testa, al posto di un rombo disordinato, udiva solo la metrica di quelle rime.

E infine, quasi per caso, capì.

Si fece piccolo dinnanzi a quella terribile verità: piccolo e pallido. Si sedette a terra con le gambe raccolte al petto, affondò il viso nelle sue spigolose ginocchia e si permise di piangere, perché nessun altro, forse, l'avrebbe fatto per lui in seguito. 

La Seconda IliadeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora