99.Non si può aiutare chi non vuole essere aiutato

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Jaz aveva abbandonato il progetto di arrampicata: non ne aveva più alcuna voglia. Era davvero incredibile come Jasper riuscisse a oscurare le sue giornate, con quel suo sciocco modo di impuntarsi. Lo aveva sempre fatto, fin da quando si erano conosciuti. L'aveva inquadrato subito, nel momento in cui aveva iniziato a fare i capricci durante il loro primo allenamento con la spada.

Molti l'avrebbero trovato immediatamente antipatico, ma non lei. Aveva capito che era un'anima in pena e che aveva bisogno di un amico, così lei si era offerta, perché Jaz aveva imparato dalla vita e dal Campo che non c'è niente di più prezioso di un aiuto onesto, sincero e gratuito. Gli era stata vicina quando era stato riconosciuto da suo padre, un momento che sapeva essere davvero molto delicato. Non si era allontanata da lui fino alla partenza del treno per New Troy, perché era conscia del fatto che per una persona fragile come lui non sarebbe stato facile.

Anche ora era lì per lui, perché il suo cuore si era spezzato come era successo con quello di Fabrice: in due parti, sanguinanti e dall'aspetto atroce, forse mai più ricucibili.

Jaz credeva fermamente nel potere dell'amicizia e della buona volontà. La sua personale spada di Damocle, che abitava in Texas e portava il titolo poco credibile di madre, gliel'aveva insegnato con l'esperienza. La sua mamma era ormai un caso perso, lei lo sapeva. Non c'era più molto da fare, anche la psichiatra gliel'aveva detto. Non si può aiutare chi non vuole essere aiutato, le aveva detto durante l'ultimo appuntamento, dopo che l'aveva ritrovata nella loro vasca da bagno, immersa fino al collo in una pozza di acqua color amaranto.

Non si può aiutare chi non vuole essere aiutato, si ripeté mentre sedeva cupamente sulle scale della propria cabina, guardando senza vedere il gruppo di semidei intenti a lucidare al sole le armature usate in battaglia. Non si può aiutare chi non vuole essere aiutato.

Aveva parlato con Shoshanah, subito dopo il funerale. Non come aveva fatto Jasper.

Si era avvicinata a Gabriel e gli aveva chiesto come stava. Non come aveva fatto Jasper.

Si era interessata della salute di Scarlett e di Rob, aveva controllato che Callan avesse la decenza di star lontano da Sia in quei strani, tristi giorni.

Non come aveva fatto Jasper.

Non si può aiutare chi non vuole essere aiutato. Non c'era verità più solida di quella. Non si può aiutare chi per primo non si interessa agli altri.

Jaz credeva fermamente anche nell'altruismo. Era convinta che non si potesse costruire una felicità vera, una ragnatela di ragno così spessa e ben intessuta che sarebbe sempre uscita vincitrice dallo scontro con il vento, rimanendo rinchiusi nella propria torre d'avorio. Una piantina può ricevere tutta la terra, l'acqua e il fertilizzante che vuole: senza sole non crescerà, se non pallida e infelice.

Jaz aveva speso tempo e risorse nei suoi amici, dal momento in cui era arrivata al Campo. Il Campo era la sua famiglia, non la donna che non voleva aiuto nemmeno da sua figlia. Sue e Scarlett l'avevano cresciuta, i suoi fratelli erano i figli di Ares e tutti, tutti gli altri. Non c'erano differenze tra lei e qualsiasi altro figlio di divinità, minore o maggiore che fosse. Quando uno di loro era triste, era sempre stata pronta ad aiutare. Quando uno di loro era felice, aveva sempre gioito con loro. Giocava a Mythomagic e rideva quando perdeva, felice di essere viva, di essere lì e di poter giocarsi la rivincita.

Non come aveva fatto Jasper.

Lui era così concentrato su se stesso. Lui era il figlio di Ade, lui era quello che non sapeva usare una spada, lui era quello che non voleva perdere a carte. Si sentiva cattiva nel pensarlo, ma Jasper era un egoista. Jaz sapeva tutto di lui e della sua famiglia, di come sua madre l'avesse cresciuto da sola e di come era stato difficile essere un bambino dislessico e scontroso in una classe di umani normali. Jasper di lei non sapeva niente, invece.

Non perché Jazlynn evitasse il discorso. Era doloroso, ma sapeva affrontarlo. No. Il fatto era che Jasper non le aveva mai chiesto niente.

Non si interessava degli altri. Non chiedeva, non si interessava, non gli importava proprio un bel niente. Era sempre e solo concentrato su se stesso, al mondo sembrava esistere solo il suo dolore, solo la sua storia, solo il suo essere semidio.

Beh, news flash: non era né il primo né l'ultimo a crescere da solo. Pensava forse che Ares si fosse mai interessato a quella figlia sgraziata con qualche problema di crescita, che a dieci anni era alta già un metro e settanta? Non era il primo né l'ultimo semidio a compiere azioni scomode. Gli aveva detto che aveva sentito le voci degli spiriti della guerra sul campo di battaglia. Mezza bugia: quei demoni non avevano parlato a nessuno dei suoi fratelli. Era stata lei la loro prescelta e se non fosse stato per Fabrice, avrebbe probabilmente sgozzato due o tre dei suoi amici, senza neanche volerlo.

Però Jasper non si era stupito più di tanto. Certo, aveva spalancato gli occhi dalla sorpresa per quelle parole, ma non si era preoccupato, figurarsi. Sicuramente si era ricordato che quello che sentiva le voci dei morti era solo lui, che il suo era stato solo un caso. Nulla da prendere sul serio, eh.

Jaz strinse i pugni, posati sugli scalini, il mento posato sulle ginocchia. Aveva le gambe troppo lunghe e gli scalini erano troppo pochi per distenderle. Si domandò con una certa tristezza mista a delusione se Jasper si fosse mai chiesto cosa significasse per una ragazza essere più alta di tutti gli altri, perfino dei maschi più grandi. Lei si era sempre sentita fortunata ad avere Scarlett, la prima persona in grado di farla sentire normale e che le aveva fatto accettare la cosa... ma se lo chiese lo stesso. O pensava che fosse una bella fortuna?

"Probabilmente si piange addosso. Me tapino, una ragazza è più alta di me!" Lo scimmiottò con il tono polemico che aveva imparato da lui. Si sentì ancora peggio per quell'eccesso di sarcasmo e di rabbia e si disse che la stava facendo troppo drammatica, che un po' Jasper era da capire: aveva appena perso il suo migliore amico.

"Come se non fosse il mio. Dei, è così stupido. Come può pensare che Fabrice non lo fosse per me?" Si domandò, infiammandosi di nuovo, come se avesse appena gettato benzina sul fuoco. "E di Sho. Dei, come si fa a essere così egoisti? E stupidi. E ciechi."

Allungò una gamba a dare un calcio a un sassolino ai piedi della scala. Più ci pensava, più la cosa la faceva arrabbiare.

"E poi un minimo di educazione. Prima mi dici sì, poi cambi idea. Stupido. Dei, che stupido."

Avrebbe voluto alzarsi e andare a stanarlo, come il ratto che era. Perché in quel momento non era altro che un topastro rinchiuso nella sua stamberga, a fare chissà cosa. Jaz aggrottò la fronte e pensò che avrebbe proprio dovuto farlo, anche se sapeva che non sarebbe successo, perché non riusciva a non avere rispetto del dolore che provava per Fabrice.

"Ma glielo dirò." Ringhiò arrabbiata e offesa. "Glielo ricorderò che non era solo suo amico. Perché non è giusto. Io, io, io. No, caro signor rattone: noi."

Non si può aiutare chi non vuole essere aiutato. Ma Jaz avrebbe sfondato quella porta a calci, per almeno provarci.



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