Non gli serviva vederci bene per capire ciò che portava tra le mani. Era come avere un piccolo coniglietto appena nato stretto addosso, una pallina di calore tenero, ma quel tipo di calore che non ti scotta. Era un calore buono che ti lecca le ferite e ti liscia i capelli quando sono un disordine.
Robert poteva distintamente sentire il buon odore di bacon e carne arrostita, l'odore di sciarpetta, l'odore di volpe che veniva emanato da quella cosa. Facendosi prendere per mano da Sia si lasciò guidare nella discesa lungo le scale, la testa dolorante dalle troppe informazioni e le gambe che tremavano ad ogni gradino. Stanchezza e sonno stavano reclamando il proprio posto ma Rob sapeva che avrebbero dovuto aspettare ancora un po'. Il grande rogo del Palladio si era portato via non solo svariati chili da ogni singolo figlio di Efesto, ma anche troppe energie. Il paesaggio olimpico non altro che macchie scure su altre macchie scure per lui. Non era riuscito a vedere nemmeno suo padre, ma non gli importava. Solo una cosa era importante: quella piccola cosa che teneva.
Non la vedeva e non la voleva vedere. L'essenziale è invisibile agli occhi, si diceva da qualche parte tra le pagine di un libro. Ed era proprio per quello che non gli importava l'aspetto di qualcosa che gli avrebbe ridato Scarlett. I suoi polpastrelli vedevano per lui: più si avvicinavano al mondo umano, più gli sembrava che quella che tutti gli dicevano essere una piccola stella fosse una piccola volpe.
Non aveva mai visto una piccola volpe al di fuori della televisione, aveva solo visto una grande (gigantesca) volpe fuori misura, ma probabilmente anche Scarlett era stata cucciola in un qualche momento della sua vita. Immaginava la coda rossa e bianca arrotolata attorno al piccolo corpo tiepido rannicchiato contro le sue mani calde. Il muso bicolore piccolo e teso verso l'esterno per guardare dove stavano andando. Sì, le piccole volpi dovevano essere così. Forse la volpe non c'era per davvero, ma non importava. Non si vede bene che con il cuore.
La terra li accolse al buio noto e privo di pericoli del Campo Mezzosangue. L'erba, seppur affaticata dalle temperature estive, mandava su una frescura che definirla agognata sarebbe stato riduttivo. Roberti ispirò profondamente godendosi il ritorno definitivo a casa. La piccola volpe fremette nelle sue mani come se desiderasse scappare e da quantò sentì con le sue orecchie capì che non solo la sua, ma le piccole e calde volpi di tutti volevano la stessa cosa.
Solo allora aprì gli occhi e si rese conto che dalle mani di ciascuno dei suoi compagni e amici una luce vibrava e pulsava a intermittenza sempe più impaziente. Una dopo l'altra le piccole volpi luminose abbandonarono i loro portatori e più di uno dei semidei fu convinto di vedere un guizzo di una coda o il circospetto muoversi della zampe di una volpe nella massa di chiarore che poco a poco si ammassò sempre di più diventando sempre più grande e sempre più luminosa.
Robert trattenne il fiato e strinse la mano di Sia mentre la luce prendeva una forma molto ben conosciuta, con le gambe allungate e un'impertinente capigliatura. L'ultima piccola volpe di luce a prendere posto partì dalle mani di una Sue quasi commossa, che con delicatezza la lasciò per terra a correre verso la sua legittima collocazione.
Poi le luci si spenserò d'improvviso, ma nessuno si dispiacque più di tanto, dato che avevano lasciato dietro di sè qualcosa che, anche se non brillava, valeva tutto l'oro e le luci del mondo. Scarlett era lì, immobile, in piedi con il respiro trattenuto.
Rimase a fissarli per un lungo istante, uno a uno, prima di esclamare: "Ma! Chiudo gli occhi per due secondi e succedono trecento cose?"
Non ci fu bisogno di altro per accendere la miccia: urlando all'unisono, tutti i semidei - e Sue, perfino Sue! - le si gettarono addosso per il primo, speciale abbraccio.
Daphne avrebbe voluto festeggiare con gli altri ragazzi, scrollarsi di dosso quegli anni in eccesso che le erano affibbiati all'anagrafe, bere fino a pentirsene. L'avrebbe proprio desiderato. Era sempre stata brava a ridurre in finissima polvere tutti i problemi, le preoccupazioni e i dolori e a nasconderli sotto il tappeto delle camere più nascoste della sua mente. Aveva iniziato con i fallimenti scolastici e sportivi e poi aveva continuato con gli uomini.
Gli uomini. Quei maledetti. Le avevano rovinato la vita. Proprio come faceva l'alcol, lo diceva sempre: lei li amava e loro la rovinavano. Uomini. Di qualsiasi età e in qualunque modo entrassero nella sua vita, la storia era sempre la stessa.
Sì, Daphne avrebbe davvero desiderato festeggiare e per l'ennesima volta nascondere a se stessa i problemi, ma era scossa. Il solito trucchetto mentale non funzionava e forse non voleva, in realtà, che funzionasse. Per una volta, mentre se ne stava in piedi in mezzo a semidei gaudenti, desiderò provare un sentimento diverso dal solito, superficiale appagamento. Non aveva bevuto nemmeno un drink e non aveva intenzione di farlo. Sentiva montare dentro di sé il disagio per quella situazione assurda e, inoltre, non riusciva a schiodarsi dagli occhi l'immagine di Artemide come l'aveva vista: assisa sul suo trono, indifferente e un po' imbarazzata per i complimenti che aveva dovuto rivolgerle.
Maledetti uomini. Le avevano distrutto la vita e continuavano a farlo anche in quel momento. Com'era possibile? Era diventata Cacciatrice proprio per evitarli, com'era possibile che fosse successo tutto ciò?
"Aveva ragione Eva." Commentò rabbiosa, scrollando le spalle e avviandosi nel buio oltre il cerchio in festa. In realtà buio non era per davvero, visto che la sua giacchetta argentata rapiva barbagli di luce, un pesciolino d'argento gettato in un mare di inchiostro. "Era meglio farsi piacere le ragazze."
Eva era stata una delle sue due amiche di scuola, assieme a Lucy. Gente a cui tuttora voleva bene, ma che non vedeva da davvero troppo tempo, visto che per il mondo era definitivamente morta. Era certa, pur non sapendolo, che Eva non si fosse fatta fregare dagli uomini. Era una bella tosta lei, di gusti difficili. Quasi di certo era finita zitella circondata da gatti o da qualsiasi altra bestia pelosa che non richiedesse birre dal divano e che non lasciasse la tavoletta del cesso alzata. Eva sì che si sarebbe trovata bene con le Cacciatrici, mica come lei. Nella brochure che l'aveva convinta si parlava di amiche e sorelle, ma nel gruppo di Artemide aveva trovato solo ostilità. Solo e sempre ostilità per Daphne Scarabeth.
"È la maledizione degli uomini." Si disse, mettendo un piede sul primo gradino della Casa Grande, fiocamente illuminata da piccole lanterne posate sulla veranda e alle finestre. I polpacci le tremavano e aveva un gran freddo. Era l'anticamera del dolore? Poteva darsi, in fondo non era di certo una specialista. Si fece coraggio ed entrò.
Lo sapeva già che il catafalco era lì. Aveva visto la sua costruzione, prima della chiamata sull'Olimpo. E poi erano le regole dei riti funebri greci: il morto doveva essere esposto e compianto, prima che fosse tutto pronto per il saluto finale. Si avvicinò e guardò il viso di Fabrice. Ora che era stato ripulito, sembrava incredibilmente in pace. Una calma estatica dava un colorito pallido ma non cadaverico – era quasi luminoso, sì – al suo volto. Sembrava quasi sorridere, con gli angoli della bocca un poco contratti. Sapeva di non avere molto tempo per rimanere sola con lui.
"Maledizione." Sussurrò Daphne, con un velo di lacrime davanti agli occhi. "Maledizione, stupido ragazzino. Perché io?"
Era una domanda che aveva continuato a porsi fin da quando Artemide aveva smesso di congratularsi con lei. Perché lei? Perché la Cacciatrice peggiore era stata scelta per quell'impiego così scomodo? Daphne non sapeva niente di profezie e altra burocrazia divina: lei aveva solo ubbidito a un ordine che proveniva dalla padrona. E ciò che la padrona diceva era legge.
Osservò la maglietta nuova di zecca di Fabrice e pensò che il giorno dopo sarebbe stata ricoperta dal drappo con il simbolo di Atena e questa volta gli occhi le si riempirono di lacrime.
"Se l'avessi saputo non ti avrei portato qui." Affermò, sapendo di mentire, perché non avrebbe potuto decidere proprio niente. Ma forse avrebbe potuto difenderlo a New Troy, avrebbe potuto evitare quello che era successo, anche se il viso in pace di Fabrice le fece pensare che anche la sua anima, dovunque si trovasse, dovesse essere così contenta. Chissà se aveva avuto paura quel ragazzino o se aveva avuto più paura di veder morire i suoi amici. Forse la seconda aveva battuto la prima. Forse la prima non c'era mai stata.
"Oh, Fabrice." Esalò, piagnolando. "Cosa penseranno ora di me, tutti quanti? Cosa sono io?"
Trasalì violentemente, perché non si aspettava di certo una risposta.
"Quello che sai di essere: una stronza traditrice."
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La Seconda Iliade
FanfictionQuarant'anni sono passati da quando Percy Jackson ha rivoluzionato il mondo. In quarant'anni sono accadute molte cose - piccole e grandi, belle, brutte, bruttissime e 'Trump ha vinto le elezioni' level - eppure il Campo Mezzosangue è sempre qui, pro...