CAPITOLO 14

581 22 0
                                    

Sono circa le venti meno un quarto e di Jonathan nemmeno l'ombra. Sbuffo ormai infastidita ricontrollandomi per la miliardesima volta. Pamela aveva ragione, il mio maglioncino, che ormai davo per perso senza rimedio, è tornato pulitissimo e sembra quasi nuovo. Sorrido ripensando a lei mentre, tirando fuori dalla sua borsa un phone portatile inizia ad asciugare la maglia. Secondo me, se non le è già successo, prima o poi la fermeranno in qualche negozio spacciandola per una ladra, perché non è normale, nonostante oggi sia stata la mia salvezza, andare via con ammorbidenti, phone portatili e altri strani oggetti nella borsa.
Afferro il telefono e ricontrollo l'ora. Sono le venti. Stanca e spazientita mi alzo prendendo le mie cose e, proprio quando mi sto per allontanare dal tavolo, lo vedo entrare nel bar.
Indossa di nuovo la divisa e sembra estremamente stanco. Sbuffando mi risiedo. Gli sembra questa l'ora di arrivare!

«Scusami per il ritardo.»

Mormora sedendosi difronte a me. Ora che lo osservo meglio, più che stanco sembra distrutto.

«Ok.»

Decido di chiudere un occhio, viste le sue condizioni.

«Come stai?»

Chiede gentile, mentre un palese imbarazzato si impossessa del suo corpo irrigidendolo.

«Comincia a spiegare.»

Dico dura mentre lo fisso seria. Non posso permettermi di lasciarmi andare perché voglio essere sicura al cento per cento di non non provocare nessuna reazione catastrofica in me.

«Sì...»

Annuisce visibilmente dispiaciuto dal mio comportamento. E come si aspettava che mi comportassi dopo tutto questo tempo? Mi ha lasciata da sola, con i sensi di colpa per l'incidente e l'ansia che gli fosse succeso qualcosa o si fosse fatto qualcosa. Se solo ripenso a tutti i giorni che ho passato insonni, senza toccare cibo e reclusa intere giornate a casa a piangere, per poi cosa, ritrovarmelo qui vivo e vegeto ed in ottima salute? Questa è una presa in giro, voglio sperare, uno scherzo. Inspiro ed esperto visibilmente arrabbiata.

«Da dove vuoi che cominci?»

Domanda titubante.

«Da quella notte Jonathan, da quella maledettissima notte nella quale sei sparito dalla mia vita.»

Sbotto cercando di trattenere la collera che cerca di uscire ad ogni parola.

«Dopo che i soccorsi sono arrivati e Julian e l'altro ragazzo sono stati portati via, la polizia ha portato me ed i pochi rimasti al commissariato per depositare le nostre testimonianze e dichiarazioni. Dal momento che tutti noi eravamo innocenti siamo stati congedati in attesa di nuovi aggiornamenti. Una volta fuori sono corso da Julian ed ho scoperto cosa gli era successo. Mi sono sentito un verme perché tutto ciò spettava a me, io dovevo finire in quello stato e non lui...»

I suoi occhi sono lucidi mentre guarda un punto non preciso fuori dalla finestra. Un improvviso nodo alla gola si forma a quelle parole e, anche se so che dovrei dirgli che mi sento allo stesso modo colpevole, decido di starmene zitta e continuare ad ascoltarlo.

«L'unica cosa che volevo fare era correre da te e piangere tra le tue braccia, ma non riuscivo nemmeno più a guardarmi allo specchio e come avresti potuto farlo tu dopo aver visto il mostro che ero diventato?»

Le sue parole sono dure, carice di rammarico e senso di colpa che lentamente lo sta diventando. Riesco a sentire fino a qui la sua sofferenza ed il suo dolore.

«Così ho deciso di partire, ed ho viaggiato per mesi senza meta fino ad arrivare a Portland dove ho conosciuto Malcom. Mi sono arruolato grazie a lui, lui era già nell'esercito da un anno, e mi ha convinto a diventare uno di loro.»

Lo ascolto senza fiatare. Avrei così tante domande da fargli, ma mi trattengo per non volergli dare troppa confidenza.

«Ci sono stato quasi cinque anni, e ci sono tutt'ora. Allora mi ero ripromesso che, una volta ritrovato me stesso, una volta ripulitomi dalle mie azioni, ti avrei chiamata per dirti che stavo bene e che ti amavo, ma poi, col passare del tempo, ho avuto paura di non essere mai abbastanza, di non essere ancora la persona che volevo diventare, ed alla fine ho capito che non lo sarei mai stato.»

Mormora abbassando lo sguardo sconsolato.

«Ho pensato che se ti avessi lasciata andare, tu finalmente saresti riuscita a trovare qualcuno che ti meritasse davvero. Qualcuno che non ti facesse soffrire continuamente come me. Era meglio che soffrissi io per darti la vita che meriti...»

Piccole gocce mi bagnano le mani riportandomi alla realtà. Senza nemmeno rendermene conto sto piangendo. Frettolosamente asciugo con la manica del maglione quelle lacrime ribelli che, senza il mio permesso, mi solcano le guance come fossero lava ardente.

«Quanto sei stupido...»

Borbotto sottovoce. I suoi occhi, gonfi e rossi, si incastano nei miei, ridotti nella medesima situazione.

«Tu mi hai sempre meritata e quello che è successo a Julian non è stata colpa tua.»

Le sue labbra si piegano in una smorfia.

«Sarei dovuto salire io.»
«Ma io, fortunatamente, ti ho fermato! L'incidente sarebbe capitato anche a te....»
«E tu come fai a saperlo? Tra i due ero io quello che correva, quello che sapeva come correre. Julian era solo un bravissimo meccanico, sapeva tutto di auto  tranne come fare a guidarle!»

Esclama lui disperato.

«Jonathan, non è stata colpa di nessuno, a volte la vita ci pone davanti a difficoltà estreme ed inevitabili, e purtroppo quel giorno è toccato a Julian. Devi smetterla di incolparti e vivere nei sensi di colpa per una cosa che non dipende da nessuno.»

Ed è proprio quando pronuncio queste parole, così vere e sincere, che capisco di non essermi sentita mai realmente in colpa per quella vicenda. E allora perché mi sentivo così? Verso chi avevo dei rimorsi? Ma soprattutto, perché ho deciso di vederlo se, dentro di me, sapevo già che questo incontro non mi avrebbe portata da nessuna parte?

ROOMmate 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora