66. lacrime

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Federico si era svegliato da mezz'ora, ma non aveva ancora connesso la testa.
Aveva passato la giornata prima con Olivia e Mami al mare, e si era reso conto di essersi dimenticato quanto fosse stancante gestire due bambine, specialmente due come loro, che, oltre che essere estremamente scatenate, erano pure abbastanza scaltre da premere perfettamente sui suoi punti deboli. Bastava uno dei loro bronci adorabili, o la loro vocina gentile e leggera, e lui rischiava già di desistere.
Questo, accostato alle mille regole che Gaia non mancava mai di ripetergli, non era poi il migliore del prospetto per lui, soprattutto quando rinunciare era più facile che mantenere la linea dura.
Così, quando era andato a riportarle a casa e aveva dovuto motivare la brioche per colazione, la pizza per pranzo, il gelato per merenda e pure i braccialettini di perline rosa che avevano voluto tanto entrambe.
Gaia aveva scosso la testa in maniera vigorosa, chiaramente delusa, poi gli aveva detto di filare a casa senza cercare scuse stupide. Gabriele, invece, aveva solo ridacchiato, abbracciandolo prima di farlo andare via.
Era tornato a casa leggermente abbacchiato, un po' divertito, e sicuramente molto stanco, così, dopo aver risposto a qualche messaggio, si era infilato a letto, con gli occhi che si chiudevano. Di solito, si metteva una sveglia per la mattina dopo, ma quella sera era troppo stanco, e aveva deciso che, per una mattina, avrebbe dormito quanto voleva, tanto quante volte lo aveva fatto?
E, chiaramente, quella mattina qualcuno doveva avere bisogno di lui, perché era già la terza volta che suonavano il suo campanello. Sbuffò mentre si stropicciava gli occhi, chiaramente si era appena alzato, e non si era nemmeno preoccupato troppo di infilarsi qualcosa sopra ai boxer perché se qualcuno si presentava a casa sua a quell'ora, così presto, voleva dire che lo conosceva bene e non si faceva veramente troppi scrupoli. Pensò di cosa potesse aver bisogno Gaia, a quell'ora del giorno, se avesse ancora voglia di strigliarlo perché aveva deciso di non sottostare alle sue regole per le bambine, o se i suoi genitori avessero pensato che quello fosse il momento giusto per passare un po' di tempo con lui.
Si trascinò giù dalle scale, per poi guardare la propria figura riflessa nello specchio accanto all'ingresso, giudicandosi impietosamente ma consapevole pure di non poterci fare nulla, ormai. Si passò entrambe le mani sul viso, come a voler cercare di distendere un po' di più i muscoli del viso e sembrare rilassato, e non come se fosse appena saltato giù dal letto dopo una notte difficile.

Non riusciva a smettere di sognare Alessia, la sua faccia contrita quando l'aveva toccata, il suo corpo rigido contro il proprio, come se la ripulsione nei suoi confronti avesse preso totalmente il sopravvento su quello che lei provava, almeno qualche tempo prima, per lui. Era così dura, con lui, come se quasi non lo conoscesse, o almeno non così bene. Come l'aveva trattato, in quel modo così tranquillamente distaccato, come si tratta una persona con cui non si vuole avere apertamente a che fare, e quindi si evita il più possibile, ma che a un certo punto non si può più tenere lontana. Era strana, strana per lui, strana rispetto a come si era sempre comportata con lui, strana da come l'aveva sempre vista e da come si era sempre fatta vedere da tutti.
Era così diversa da come la ricordava: lontana dalla leggerezza che aveva scoperto, in lei, a mano a mano che si apriva con lui, la sua naturale simpatia e la sua quasi razionale dolcezza, che sembrava essere intrinseca in qualsiasi cosa facesse.
L'aveva sognata con qualcun altro, l'aveva sognata triste, l'aveva sognata felice, l'aveva sognata come era due sere prima, bellissima nonostante i chili persi e la chiara sensazione di essere fuori posto, chiara almeno a lui, che la conosceva bene, lontana, distante, come se fosse costantemente da tutt'altra parte con la testa. L'aveva sognata abbracciata a sé, l'aveva immaginata attaccata al suo fianco, la sua mano intrecciata alla propria, come era stato a Trieste, e prima ancora a Firenze. Ricordarsela sorridente, felice, e riuscire pure a paragonare quella visione a quella più recente, quella di lei triste, gli serrava lo stomaco.
Come aveva fatto a uscirne vivo, non lo sapeva nemmeno lui, sapeva solo che si era svegliato entrambe le mattine, solo nel suo letto matrimoniale sfatto, cercando inconsciamente con il corpo e con lo sguardo lei, che però non era lì. Aveva pianto, nascondendosi in maniera imbarazzata, come se non fosse qualcosa che doveva fare, per poi asciugarsi da solo le lacrime, con le mani, e alzarsi, e accompagnare Olivia e Mami in spiaggia, e continuare a girarsi a destra e a sinistra, convinto di averla vista passare, di aver captato la sua vicinanza o anche solo la sua ombra, trovando, però, il vuoto.

complici, federico bernardeschiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora