4. ci saresti potuto venire anche tu a Cuba

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«Gaia!» una voce maschile mi risvegliò dallo stato di trance in cui mi ero ritrovato mentre guardavo i nomi stampati sul campanello. Sembrava quasi che mi fossi addormentato in piedi, un po' per il caldo e un po' perché mi sembrava di aver già letto quel nome da qualche parte. Claudio Pucci mi suonava familiare, ma non riuscivo ad associarlo a nulla per il momento.

«Federico!» esclamò poi il ragazzo, i cui capelli ricci e biondi associai immediatamente al nome di Matteo, mi attirò a sé e mi abbracciò come se mi conoscesse bene come conosceva mia sorella.

«Mia sorella ha detto che se ti fossi presentato non ti avrei dovuto far entrare, quindi immagino che voi due vi dobbiate vedere. Camera sua è in cima alle scale, la prima porta a sinistra» mi sorrise in modo rassicurante e indicò la porta che doveva essere quella della sua camera. Sorrisi in risposta e rivolsi uno sguardo veloce a mia sorella, che mi stava osservando in modo ammiccante, ma io non affermai né smentii nulla.

«Posso andare con le scarpe?» chiesi scrupolosamente per evitare di creare troppo fastidio.

«Certo, vai pure!» mi diede una pacca sulla spalla e poi si avviò con mia sorella sottobraccio verso quello che pensai potesse essere il soggiorno. Salii le scale velocemente, per poi fermarmi sul pianerottolo e aspettare un attimo per calmarmi e pensare come formulare una frase di senso compiuto per cominciare una conversazione.

Bussai alla porta e subito dopo pensai che fosse una cosa abbastanza stupida. Sentii il suo sguardo su di me prima di poterlo anche solo immaginare. Mi guardò dall'alto al basso nonostante i dieci centimetri abbondanti di altezza che ci separavano, poi corrugò le sopracciglia e allacciò le mani sotto al seno, aspettando che le dicessi qualcosa.

«Ti avevo detto che sarei venuto» dissi, preso alla sprovvista dal suo sguardo che sembrava giudicare ogni centimetro del mio corpo.

«A me invece sembrava di averti detto di non passare» replicò in modo asciutto lei, con il sorrisino strafottente che, anche se la conoscevo poco, mi sembrava la caratterizzasse.

«Beh, adesso che sono qui vuoi mandarmi via?» scrollai le spalle e lei sospirò, lasciando un piccolo spazio per farmi passare dalla porta. La guardai infastidito, poi alzai gli occhi al cielo e mi misi di taglio, entrando nella sua stanza e sfiorandole il fianco con la mano.

«La televisione è lì, tu stai per terra» mi ordinò, lasciandosi cadere sul letto a pancia in giù. Il mio sguardo scivolò velocemente sul suo sedere, era sporgente in modo quasi innaturale. Mi schiarii la voce e poi mi sedetti per terra accanto al letto, guardandola dal basso per una volta.

«Sei così gentile con tutti i tuoi ospiti o tratti così solo me?» le chiesi, mentre lei si stava sporgendo verso il comodino per spegnere la luce della stanza.

«Tratto così solo te perché sei l'unico fino ad adesso che si è presentato davanti alla porta della mia camera senza che io ti avessi invitato o che l'idea mi fosse anche minimamente passata per la testa» piegò la testa e adoperò un tono fintamente infastidito mentre premeva i tasti del telecomando, cambiando canale molto velocemente.

«In realtà mi volevi qui ma non hai nemmeno il coraggio di ammetterlo a te stessa» replicai velocemente, per poi distogliere lo sguardo dal suo viso e osservare tutta la stanza. Davanti a me c'era una scrivania piena zeppa di libri in tre diverse lingue: italiano, inglese e spagnolo. Sulla sedia della scrivania c'erano dei vestiti impilati. In quell'ammasso di abiti, riuscii facilmente a distinguere il vestitino rosso che aveva addosso la sera della cena in cui ci eravamo visti la prima volta.
A sinistra del letto dove era distesa lei c'era un armadio bianco e a destra del letto, dietro di me, un comodino e una libreria, anch'essa piena zeppa di libri e, sul ripiano più basso, un cofanetto con i dvd di tutte le stagioni di Grey's Anatomy.

complici, federico bernardeschiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora